Il Nobel Orhan Pamuk «La mia Istanbul moderna e ottomana sceglie l’Islam politico»

by redazione | 2 Novembre 2015 12:10

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Orhan Pamuk, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 2006, e da sempre residente a Istanbul, è uno scrittore che ha saputo cogliere in modo singolare i rapporti tra Oriente e Occidente. Il suo nuovo romanzo, «La stranezza che ho nella testa», è un ritratto ricco e dettagliato della sua amatissima Istanbul. La storia si svolge nell’arco degli ultimi decenni, che hanno visto la modernizzazione della Turchia e l’arrivo di una massiccia immigrazione interna dalle campagne dell’Anatolia verso la capitale del Paese: dalla tradizione alla modernità.
Questo romanzo non è forse anche la grande narrazione del nostro tempo, contraddistinta dalla massiccia immigrazione urbana?
«Inizialmente volevo scrivere un racconto su un uomo che perde il suo lavoro, come venditore di prodotti tradizionali, lo yogurt o la boza leggermente alcolica, a causa dell’industrializzazione e dell’arrivo di prodotti nuovi e più moderni. La narrazione però si è sviluppata in un’epopea ricca di voci e di personaggi, perché mi incuriosiva esplorare come arrivavano gli immigrati a Istanbul e come si inserivano nel contesto urbano man mano che la metropoli cresceva per passare da un milione a 17 milioni di abitanti in sessant’anni. E tutto questo io l’ho vissuto da testimone diretto, essendo nato e cresciuto in questa città. Volevo capire com’era passare giorni e giorni alla ricerca di un lavoro. Quali erano le difficoltà che incontravano le famiglie, con le loro usanze e la loro fede, in quel nuovo ambiente? La storia del protagonista Mevlut è anche la storia di tanti altri immigrati, come quelli che dalla Sicilia si spostarono a Milano o Torino negli anni 50, o dalle campagne alle grandi città industriali in Spagna, o ancora verso le grandi metropoli nella Cina dei giorni nostri».
Mevlut tenta invano di seguire una tradizione ormai superata. Il suo altro lavoro è in un settore moderno — fa il lettore di contatori per l’azienda dell’energia elettrica. Le due occupazioni e la doppia identità di Mevlut rappresentano un ibrido di vecchio e nuovo.
«Una delle cose più importanti che abbiamo appreso nei tempi moderni è che tutti noi non siamo fatti di un’unica qualità, di una sola idea. Molti personaggi dei miei romanzi negli ultimi anni sono i turchi delle classi agiate, i turchi secolari. Spesso hanno un atteggiamento europeo e vogliono che il Paese entri nella Ue, ma al contempo credono nel potere dell’esercito, nella possibilità di un golpe militare, e sono pronti a seguire un leader autoritario. Pur aspirando a condividere i valori europei, non vogliono rinunciare alla sicurezza conferita dall’etica, dalla moralità e dalla religione tradizionale. Questi due aspetti si fondono costantemente. Dalle mie parti, ideali di uguaglianza e pulsioni autoritarie convivono con concetti più liberali. Alcuni vorrebbero che il governo controllasse tutto, altri preferiscono libero commercio e libero mercato. Alcuni vogliono che il governo assicuri protezione, altri percorrono strade senza scrupoli per far soldi, legandosi alla criminalità».
Sotto Recep Tayyip Erdogan e l’Akp, la modernità ha modificato i valori tradizionali dell’Islam proprio come questi hanno trasformato la Turchia di Atatürk — e con essa Istanbul — in un Paese moderno non occidentale. Lei ritiene che ciascuno abbia trasformato l’altro?
«Indubbiamente. Istanbul è diventata più conservatrice e religiosa, a seguito della grande immigrazione proveniente da zone rurali e tradizionali. Ne è scaturita una nuova cultura. Nuovi film melodrammatici, ispirati alla sensibilità degli immigrati, hanno riscosso un enorme successo. L’Islam politico stesso è passato da un atteggiamento statico a una visione di sviluppo economico, incoraggiando la costruzione della selva di palazzi che hanno cambiato il profilo della città. Nel corso di questi mutamenti, il partito di Erdogan, da paladino del governo onesto e trasparente, è diventato un partito che oggi viene accusato di corruzione, ricollegata per lo più alla speculazione edilizia».
La società nel suo insieme non sembra capace di decidere se il Paese vuole tornare al suo passato ottomano o muovere in avanti. In mancanza di una narrativa convincente, ecco che divisioni e violenze colmano il vuoto, come abbiamo visto nel recente attentato di Ankara.
«Spero che il prossimo governo sia in grado di accogliere al suo interno i due poli opposti della Turchia nello spirito di unità nazionale, abbracciando la diversità della società quale condizione imprescindibile per la stabilità e la democrazia. Negli ultimi tempi, c’è stata un’eccessiva polarizzazione. La politica e i suoi rappresentanti hanno adesso il dovere di tirare il freno» .
(Traduzione di Rita Baldassarre)

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