Jürgen Habermas: “Combattiamo la barbarie salvando la libertà”

by NICOLAS WEILL, la Repubblica | 23 Novembre 2015 12:10

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Il presidente Hollande propone la definizione di uno “stato di guerra” che rifletta la situazione in atto. Jurgen Habermas, cosa ne pensa? Ritiene che una modifica della Costituzione sia una risposta adeguata agli attentati del 13 novembre a Parigi?
«Mi sembra sensato adattare alla situazione attuale le due disposizioni della Costituzione francese relative allo stato d’emergenza. Ma non sono per nulla esperto in questioni di sicurezza. Questa decisione mi appare piuttosto come un atto simbolico, per consentire al governo di reagire – nel modo verosimilmente più conveniente – al clima che regna nel Paese. In Germania comunque la retorica bellicista del presidente, ispirata a quanto pare da considerazioni di politica interna, suscita qualche riserva».
Hollande deciso di innalzare il livello dell’intervento francese in Siria.
Cosa pensa dell’interventismo?
«Non è stata una decisione politica inedita, ma solo l’intensificazione dell’impegno dell’aviazione francese. Gli esperti sembrano concordi sull’impossibilità di sconfiggere con i soli bombardamenti aerei un fenomeno sconcertante come quello dello Stato islamico. D’altra parte, un intervento di truppe di terra americane ed europee sarebbe quanto mai imprudente. Le azioni condotte scavalcando i poteri locali non servono a nulla. Lo Stato islamico non si può battere col solo ricorso a mezzi militari: anche su questo punto le opinioni degli esperti coincidono. Certo, dobbiamo considerare quei barbari come nemici e combatterli incondizionatamente. Ma per sconfiggere questa barbarie non dobbiamo lasciarci ingannare sulle loro motivazioni, che sono complesse. Come è noto, i conflitti tra sunniti e sciiti, dai quali il fondamentalismo dello Stato islamico trae oggi le principali energie, si sono scatenati in seguito all’intervento americano in Iraq, deciso da George W. Bush, che ha fatto strame delle regole del diritto internazionale. Certo, la battuta d’arresto del processo di modernizzazione di quelle società si spiega in parte anche con alcuni aspetti specifici dell’orgogliosa cultura araba. Di fatto, però, almeno in parte l’assenza di prospettive e di speranze per il futuro delle giovani generazioni di quei Paesi, va addebitata anche alla politica occidentale. Quei giovani si radicalizzano per riaffermare il loro amor proprio. Accanto alla concatenazione di cause che ci conduce in Siria, ne esiste un’altra: quella dei destini segnati dalla mancata integrazione nelle strutture sociali delle nostre maggiori città».
Secondo lei è pensabile e possibile lottare contro il terrorismo mantenendo intatto lo spazio pubblico democratico? E a quali condizioni?
«Uno sguardo retrospettivo sull’11 settembre non può che farci constatare, come hanno fatto peraltro molti dei nostri amici americani, che la “guerra al terrore” di Bush, Cheney e Rumsfeld ha deteriorato la natura politica e mentale della società americana. Il Patriot Act, adottato all’epoca dal Congresso e tutt’ora in vigore, ha eroso i diritti fondamentali dei cittadini, e incide sulla sostanza della Costituzione americana. La stessa cosa si può dire dell’estensione della nozione di foreign fighter, che ha avuto conseguenze fatali, legittimando Guantanamo e altri crimini, ed è stata accantonata solo dall’amministrazione Obama. Ma non potremmo fare come i norvegesi nel 2011, dopo lo spaventoso attentato commesso sull’isola di Utoya? Resistere al primo riflesso, alla tentazione di ripiegarsi su se stessi di fronte a un’incognita incomprensibile, di dare addosso al “nemico interno”? Spero che la nazione francese sappia dare al mondo un esempio da seguire, come già dopo l’attentato aCharlie Hebdo. Non c’è alcun bisogno di reagire a un pericolo fittizio come l’“asservimento” a una cultura straniera, che secondo qualcuno ci sta minacciando. Il pericolo è ben più concreto. La società civile deve guardarsi dal sacrificare sull’altare della sicurezza le virtù democratiche di una società aperta: la libertà degli individui, la tolleranza verso la diversità delle forme di vita, la disponibilità a immedesimarsi nelle prospettive altrui. Nel suo modo di esprimersi il fondamentalismo jihadista ricorre a tutto un codice religioso, ma non è affatto una religione. Al posto dei termini religiosi di cui fa uso potrebbe usare qualunque altro linguaggio devozionale, o anche mutuato da una qualunque ideologia che prometta una giustizia redentrice».
L’atteggiamento tedesco nei riguardi dell’afflusso dei rifugiati ha sorpreso positivamente, anche se ultimamente la Germania ha fatto un passo indietro. Pensa che l’ondata terroristica possa modificare questa disposizione?
«Spero di no. Siamo tutti sulla stessa barca. Il terrorismo e la crisi dei rifugiati costituiscono sfide drammatiche, forse definitive, ed esigono solidarietà e una stretta cooperazione che le nazioni europee non si decidono ancora ad avviare».
© Le Monde 2015 Traduzione di Elisabetta Horvat
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