Live au Bataclan
Luogo scelto a caso nella geografia del “divertimento” crociato parigino o bersaglio prestabilito? Quale simbologia possibile, quale eventuale logica nella scelta di colpire un tempio laico della musica senza frontiere, né gerarchie, come il Bataclan. Stando a lepoint?.fr già nel 2011 membri di Jaish al-Islam(Esercito dell’Islam) confessavano alla Dcri (i servizi interni) il progetto di colpire il locale «perché i proprietari sono ebrei».
Il proprietario, o meglio il gestore, Olivier Poubelle, è un personaggio piuttosto noto, un manager che controlla anche La Maroquinerie, il Fleche d’Or, il Bouffet du Nord e altri locali, da sempre nel mondo della musica. Un tipo riservato e solitario, in barba al suo mestiere ipersociale, che nel 2005 ha rilevato il Bataclan forse per un debito di riconoscenza da appassionato nei confronti di un teatro nel quale sono nati tanti storici dischi dal vivo, una galleria di Live au Bataclan inaugurata nel ’72 dal trio John Cale/Nico/Lou Reed e impreziosita nel tempo da gente come Cesaria Evora, gli Oasis e Jane Birkin, i Gong e Jeff Buckley. Negli anni ’90 il Bataclan, ospitava la crema della musica araba e negropolitana, come la chiamava Manu Dibango. La stella del pop-raï algerino Khaled, ad esempio, si piazzava nel locale di Boulevard Voltaire per interi weekend, quattro concerti in tre giorni (la domenica doppio spettacolo) per scacciare il pensiero delle minacce che subiva in patria dalla guerriglia islamista. Al Bataclan è tornato spesso, a intervalli regolari, l’ultima volta lo scorso anno.
Gli Eagles of Death Metal, la band californiana in cartellone al Bataclan l’altro ieri sera, non sono esattamente gli U2, per citare solo i più celebri tra coloro che hanno rinunciato alla loro data parigina, prevista per ieri sera. Ma la scena musicale della città non bada troppo alla contabilità delle vendite, è onnivora e basata su un’accoglienza di fondo. Sono cartelloni eclettici come quello del Bataclan a farne la meta prediletta di tanti artisti “migranti” e talenti appena emersi da qualche scena underground del pianeta. Qui molti hanno trovato negli anni il loro spazio e il loro pubblico.
Costruito nel 1869 su progetto di Charles Duval, l’edificio che ospita il locale è una vistosa cineseria architettonica che solo nel 2006 ha ritrovato i colori sgargianti delle origini, ma non il suo tetto a pagoda. Il nome viene da un’operetta di Offenbach, quindi da un gioco di parole traducibile in «baracca e burattini». Il locale ha cambiato di segno più volte, prima di tornare alla sua dimensione originale di “salle de musique”.
O Salon de musique, come recita il titolo di una delle canzoni che Sapho, voce femminile molto popolare in Francia e nel Maghreb, ha incluso nel suo personale Live au Bataclan. Altro indizio. Sapho è una cantante franco-marocchina di origini sefardite, erede di una tradizione che ha avuto il suo massimo splendore negli anni ’60, ma che ancora oggi offre qualche riflesso e spunto di identificazione con lo spirito che anima la programmazione del Bataclan, finanche quando sul palco ci sono gli Eagles of Death Metal. È la cosiddetta canzone judeo-arabe, un composto “clamoroso” nato nei caffè di Orano e Algeri, oltre che a Parigi. Musica altamente indigesta per tutti gli integralisti del mondo.
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