Mondo di mezzo, si apre il sipario

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ROMA. È l’ora del debutto. La defi­ni­zione, in appa­renza poco con­sona all’austero pro­cesso per cor­ru­zione e mafia che si cele­bra nell’aula Occor­sio del tri­bu­nale di Roma, non la ado­pera un disin­volto cro­ni­sta ma il rap­pre­sen­tante dell’accusa, il pm Giu­seppe Cascini, rin­tuz­zando gli avvo­cati della difesa che stre­pi­tano per­ché a quat­tro impu­tati, tra cui i due prin­ci­pali, non è con­sen­tito pre­sen­ziare al rito se non in video con­fe­renza: «Mi auguro che il modo in cui si è affron­tato que­sto ini­zio di pro­cesso sia dovuto solo all’emozione del debutto», appunto. Poco dopo la pre­si­dente Rosanna Ian­niello respin­gerà le istanze.

I quat­tro impu­tati restano dove sono: fisso di fronte alle tele­ca­mere e gelido Mas­simo Car­mi­nati, ner­voso e inca­pace di star fermo un attimo Sal­va­tore Buzzi, e poi Ric­cardo Bru­gia e Fabri­zio Testa, resti­tuiti al pub­blico fol­tis­simo nelle imma­gini sbia­dite delle tv di un tempo.

Si apre il sipa­rio, e di fronte al palazzo di giu­sti­zia la folla si assiepa. L’occasione è ghiotta, c’è chi è venuto per vedere, «per guar­dare in fac­cia i mascal­zoni», e chi per farsi vedere: quelli che pro­te­stano con­tro le denunce a carico di 93 gior­na­li­sti per aver pub­bli­cato inter­cet­ta­zioni, quelli che si mobi­li­tano per­ché la riqua­li­fi­ca­zione del per­so­nale ammi­ni­stra­tivo giace dimen­ti­cata in un cas­setto, il can­tante Povia, che ha un nuovo disco da lan­ciare e stra­parla in libertà. I poli­tici invece lati­tano, con la sola ecce­zione dell’M5S che si è costi­tuito parte civile, e del nuovo segre­ta­rio dei radi­cali Ric­cardo Magi.

Hanno poco da vedere e soprat­tutto pochis­sima voglia di farsi vedere, in que­sto pro­cesso che in qual­che modo li riguarda tutti. L’unico che ci teneva tanto, l’ex sin­daco Marino, ha diser­tato: voleva com­pa­rire in fascia tri­co­lore. Senza quella non c’è sugo. Den­tro è anche peg­gio, il pub­blico stra­ripa, le tele­ca­mere pul­lu­lano e gli ope­ra­tori sospi­rano quando la pre­si­dente con­cede le riprese, i foto­grafi sono decine, i rap­pre­sen­tanti delle testate di mezzo mondo anche di più.

E’ il giorno del debutto e nes­suno si aspetta sor­prese. Invece la defla­gra­zione arriva. Anche l’ex sin­daco Gianni Ale­manno sarà pro­ba­bil­mente pro­ces­sato. La pro­cura di Roma ha chie­sto il rin­vio a giu­di­zio per cor­ru­zione e finan­zia­mento ille­cito. La rispo­sta del gup Nicola Di Gra­zia arri­verà l’11 dicem­bre, e nes­suno scom­mette sull’ipotesi che respinga la richie­sta. Cifre non pro­prio da capo­giro: 75mila euro una volta, 40mila in altra occa­sione e poi ancora 10mila, tutti, secondo l’accusa, fatti per­ve­nire da Buzzi e Car­mi­nati. Il quasi rin­viato a giu­di­zio fa buon viso a cat­tivo gioco e quasi si dichiara sod­di­sfatto: «Dimo­strerò la mia inno­cenza, ma La noti­zia impor­tante è che ogni impu­ta­zione o aggra­vante per asso­cia­zione mafiosa è caduta». Il sospetto della cor­ru­zione ancora ancora, ma la mafia, no…

Già, la mafia. E’ tutto qui il nucleo duro di que­sto pro­cesso. La cor­ru­zione è di fatto accla­rata, alcuni tra gli impu­tati eccel­lenti la hanno ammessa, primo fra tutti Luca Ode­vaine, immi­gra­tion man, l’uomo d’oro dell’affare del secolo, quello che com­mer­cia in carne umana invece che in pol­ve­rine o rifiuti: infatti si gode la deten­zione ai domi­ci­liari e siede sera­fico in seconda fila. Ma la mafia, quella no: «Ho fatto degli errori ma ho scelto di col­la­bo­rare e con Car­mi­nati non c’entro nulla. A Roma non c’è un sistema mafioso. A Roma le cose si trascinano».

Quando par­lerà, anche Car­mi­nati negherà ogni col­lu­sione con ono­rate società, poco importa se con la lupara o col col­letto bianco. Per­ché sta­volta «il cecato» intende farsi sen­tire, lo assi­cura il suo avvo­cato, Gio­suè Naso, aggiun­gendo a ruota, per stem­pe­rare even­tuali entu­sia­smi, che «però non ha rive­la­zioni da fare». Parole appa­ren­te­mente leg­gere, dalle quali tra­spare invece quella che sarà la stra­te­gia difen­siva di Car­mi­nati: con­te­stare quella immensa «cara­tura cri­mi­nale», quel ruolo di super­boss della mala­vita romana, senza il quale le accuse di asso­cia­zione mafiosa non si ter­reb­bero più in piedi. Non a caso l’avvocato segnala che il suo assi­stito è fuori di sé soprat­tutto per­ché si è par­lato di lui, pro­prio di lui «a cui la droga fa schifo», come di un traf­fi­cante di stupefacenti.

Nelle chiac­chiere tra avvo­cati e impu­tati e pub­blico feb­brile non si parla d’altro che di mafia. La cor­ru­zione, quella pare deru­bri­cata a fat­ta­rello d’ordinaria ammi­ni­stra­zione, il sistema clien­te­lare costruito nella seconda Repub­blica da tutte le forze poli­ti­che, a Roma e certo non solo a Roma, nean­che lo si nomina.

Die­tro le scin­tille tra difesa e accusa che infiam­mano «il debutto», del resto, c’è ancora quella fat­ti­spe­cie di reato male­detta, la vera posta in gioco del maxi pro­cesso romano. «Que­sto è un pro­ces­setto», attacca Gio­sué Naso: come se affon­dare la Capi­tale in una palude di maz­zette e appalti truc­cati fosse robetta, senza l’ombra del padrino. Con­ti­nua alla pros­sima pun­tata. In calen­da­rio per il 17 novembre.



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