Fabbriche clandestine e rifiuti «invisibili» Brucia la Campania felix
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«Occhio non vede, cuore non sente, naso non annusa». Dicono don Maurizio Patriciello e altri bastian contrari che questo è il senso della cosiddetta «bonifica» decisa per la «Campania infelix».
Rimosse le ecoballe così brutte e vistose, che problema resterà mai? Un po’ di veleni? Uffa, che tormentone ’sta Terra dei fuochi!
Ma certo che fanno spavento, le colline di spazzatura urbana impacchettata su quattro chilometri e mezzo quadrati a Taverna del Re. Ha twittato Matteo Renzi: «In legge di Stabilità ci sono 450 milioni in tre anni per chiudere la ferita della Terra dei fuochi». Meglio, per «eliminare in modo serio e rigoroso la piaga delle ecoballe».
Evviva. Prima se le portano via e meglio è. Se poi ce la fanno in tre anni evviva bis: quelle ecoballe messe in fila arrivano da Giugliano a Lisbona e da lì a Vienna e Kabul. Vanno tolte e smaltite. Detto questo: è l’unico problema della Terra dei fuochi? «Finiamo a parlare sempre dei rifiuti urbani», accusa don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano che ha mobilitato decine di migliaia di persone su questi temi, «e invece sappiamo che qui la gente muore per i rifiuti industriali».
Raffaele Cantone, presidente dell’Authority contro la corruzione e lui stesso di Giugliano in Campania, conferma: «I problemi sono tre. Le ecoballe, gli scarichi tossici del passato, gli scarichi tossici di oggi». Sciolto il primo (anche se Taverna del Re svuotata dal pattume vogliamo vederla coi nostri occhi), restano gli altri due nodi. Sui quali c’è silenzio. O addirittura fastidio: perché parlarne ancora? Un dettaglio dice tutto: su 2.993 notizie Ansa in cui si cita Vincenzo De Luca (ci sarà pure qualche omonimo ma quasi tutte parlano di lui, il governatore) non ce n’è una, neppure una, in cui lui nomini la Resit di Giugliano.
Eppure dopo lo sversamento di 341 mila tonnellate di rifiuti tossici tra i quali 30.600 di schifezze chimiche dell’Acna di Cengio sepolte sotto terra, come scrisse Roberto Russo sul Corriere del Mezzogiorno , la Resit è per il commissario di governo alle bonifiche Mario De Biase la più pericolosa: «Non ci dormo. È il peggio che ci sia in Campania, lì sotto sono stati sversati tutti i veleni d’Italia, insomma, è un incubo».
Il dossier del geologo Giovanni Balestri, del resto, non lascia dubbi: entro il 2064, il percolato altamente tossico che «fuoriesce inesorabilmente dagli invasi sarà completamente penetrato nella falda acquifera che è collocata al di sotto dello strato di tufo sopra il quale si trovano le discariche. I veleni contamineranno decine di chilometri quadrati di terreno e tutto ciò che l’abiterà».
Tema: dato che rifiuti tossici sarebbero stati scaricati per anni anche nelle discariche autorizzate («Magari sulla bolla risultava una cosa e sul camion ce n’era un’altra», sospira Stefano Tonziello, gestore a suo tempo di più immondezzai pubblici) e che perfino alla Resit la bonifica non è manco cominciata (Cantone stesso segnalò che l’appalto era finito anche a imprese condannate per reati ambientali: tutto bloccato) così come in tante altre discariche a rischio, chi ha ragione? Il rapporto (772 pagine) della Commissione rifiuti che denuncia «una catastrofe ambientale» paragonabile alla «diffusione della peste secentesca» o Enzo De Luca che all’Expo ha detto che la regione è prima «per la vastità, qualità e profondità del controllo del proprio territorio e del proprio ambiente» e che «il 97% della Campania è sano e incontaminato»?
Ammesso sia vero: ha fatto i conti su cosa rappresenti quel 3% su un’area regionale di 13.595 chilometri quadrati? Sono 407 chilometri quadri. Venti per venti. Abbondanti. Quattro volte la superficie (117 chilometri quadri) del comune di Napoli. Ma se guardiamo alla «terra buona» e togliamo cioè la montagna (34,5%) e larga parte della collina (50,8%), la pianura (14,7%) un tempo fertilissima dove sono stati scaricati in larga parte i rifiuti tossici si riduce a molto, molto meno. Non bastasse, il suolo effettivamente occupato dal cemento, per l’Ispra, è già il 17,3%. Anche questo in gran parte in pianura. Il che significa che la quota avvelenata di «terra buona» è molto più alta…
Dice che il monitoraggio ufficiale su 1.654 animali («Centotrentuno volpi, 700 lumache e ancora capre e api, con particolare attenzione al miele») e su 2.942 prodotti ortofrutticoli ha dato risultati confortanti. E che anche a Giugliano le fragole, come certificò sul Foglio Salvatore Merlo citando i Nas in un reportage «antropologico» in cui dipingeva donne coi «seni esplosivi ballonzolanti nelle libere vesti e il fiato pesante delle donne dei cannibali», «sono buone. Sono cioè commestibili, sane, non contaminate».
E allora? «Le fragole sane non vogliono dire niente — risponde Giovanni Balestri —. le fragole prendono quello che serve loro dallo strato più superficiale del terreno. I problemi sono sotto, in profondità». Ed è da lì, da quei rifiuti tossici affondati per decenni nel terreno, che verrebbe l’ondata di tumori che falciano, per gli ambientalisti, gli abitanti della Terra dei fuochi.
«La Terra dei fuochi, per come ce l’hanno descritta, non esiste. C’è un’emergenza, nota, e riguarda le ecoballe da smaltire», ha scritto sul suo blog Claudio Velardi, già consigliere di D’Alema a Palazzo Chigi e poi regista delle campagne elettorali di Renata Polverini e di Vincenzo De Luca, accusando dei ritardi «fomentatori politici di tutte le risme: vecchi estremisti di sinistra, nuovi millenaristi vestiti da grillini, preti a caccia di visibilità, finte mamme coraggio. Amen».
Anna Magri aveva un bambino, si chiamava Riccardo, nella foto che mostra aveva un maglioncino a righe e se l’è portato via una patologia tumorale scoperta quando aveva sei mesi: «Allattavo al seno. È passato dal seno direttamente alla macchina del chemioterapico». Fino alla fine. Dice che ha altri figli ma non ha mai pensato di andar via da qui: «Non posso abbandonare Riccardo lì al cimitero». E gli altri due bambini? «Noi mamme ci siamo unite per combattere a nome loro. Perché questa terra venga risanata». Antonio era l’unico figlioletto di Marzia Caccioppoli, un’altra di quelle che Velardi bolla come «finte mamme coraggio»: «Era un bambino sano, faceva nuoto. Vivevamo a Casalnuovo. La notte l’aria era irrespirabile. Un giorno, a otto anni e mezzo, ha avuto un rallentamento motorio. L’abbiamo portato da uno specialista, poi al Gaslini di Genova. Dove hanno accertato che Antonio era stato colpito da un tumore che non colpisce i bambini ma le persone anziane. Visti i risultati della biopsia l’oncologa chiese: “Signora, dove vivete? Vicino a industrie?”. Non capivo. Intorno avevamo campi…». Avvelenati. Però.
«Vent’anni fa, quando qui nasceva un bambino sapeva di avere l’aspettativa di vita di tutti i bambini italiani ma oggi non è più così — accusa l’oncologo Antonio Marfella, dirigente all’Istituto dei tumori «Pascale» —. Oggi chi nasce qui ha dal 20 al 30% di probabilità in più di essere colpito da un tumore infantile. E i tumori infantili rappresentano un marcatore specifico di tensione ambientale». È la paura di numeri ad aver finora frenato il registro dei tumori? «Il registro dei tumori, con primari pagati da primari, c’è da anni e anni. Ma era una scatola vuota. Ci è stato detto che i dati saranno disponibili non prima del 2018…».
Nel frattempo, mentre i veleni del passato restano lì sotto a inquinare le falde e covare nuovi lutti su tempi lunghi, i roghi notturni continuano. L’attivista Enzo Tosti, che dopo anni di battaglie sul fronte della Terra dei fuochi, su e giù per discariche, è stato colpito lui pure dal tumore, mostra un enorme terreno lasciato all’incuria nel comune di Orta di Atella. Tra le erbacce c’è un cartello con la bandiera dell’Unione Europea: «Qui doveva sorgere un consorzio di alta moda. I politici la sbandierarono come una grande occasione. E avrebbe dato lavoro ai ragazzi. Sono rimasti solo i cartelli. Delle fabbriche neanche l’ombra». Meglio: le strade e le piazzole che avrebbero dovuto servire il distretto tessile sono usate per scaricare, giorno dopo giorno, i rifiuti di lavorazione delle uniche fabbriche esistenti. Quelle «inesistenti». Che non risultano essere mai nate, che non ri-sultano avere dipendenti né pagare tasse e contributi, che non risultano produrre nulla: come fantasmi, non possono manco liberarsi degli scarti di lavorazione. E buttano tutto qua e là, per poi mandare qualcuno che li bruci. Magari i bambini rom del campo accanto alla Resit, che crescono cenciosi giocando tra le vicine discariche. «Oggi, e dico oggi, la regione Campania produrrà 6.500 tonnellate di rifiuti urbani ma soprattutto altre 22 mila di rifiuti speciali e non c’è in regione una sola discarica a norma per questi rifiuti. Più altre 6.500 prodotte in quest’area che è quella a più alta densità di produzione clandestina di borse e articoli vari di pellame. Come li smaltiscono? Li scaricano qua e là e li bruciano».
«Glielo diciamo da anni, alle autorità nazionali e locali: o chiudiamo queste fabbriche fantasma mettendo sul lastrico migliaia di persone che lavorano (in nero, ma lavorano) o troviamo il modo per farle emergere dalla clandestinità», insiste don Maurizio, «se non sarà sciolto questo nodo, i roghi non si spegneranno mai» .
(1 — continua)
Rimosse le ecoballe così brutte e vistose, che problema resterà mai? Un po’ di veleni? Uffa, che tormentone ’sta Terra dei fuochi!
Ma certo che fanno spavento, le colline di spazzatura urbana impacchettata su quattro chilometri e mezzo quadrati a Taverna del Re. Ha twittato Matteo Renzi: «In legge di Stabilità ci sono 450 milioni in tre anni per chiudere la ferita della Terra dei fuochi». Meglio, per «eliminare in modo serio e rigoroso la piaga delle ecoballe».
Evviva. Prima se le portano via e meglio è. Se poi ce la fanno in tre anni evviva bis: quelle ecoballe messe in fila arrivano da Giugliano a Lisbona e da lì a Vienna e Kabul. Vanno tolte e smaltite. Detto questo: è l’unico problema della Terra dei fuochi? «Finiamo a parlare sempre dei rifiuti urbani», accusa don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano che ha mobilitato decine di migliaia di persone su questi temi, «e invece sappiamo che qui la gente muore per i rifiuti industriali».
Raffaele Cantone, presidente dell’Authority contro la corruzione e lui stesso di Giugliano in Campania, conferma: «I problemi sono tre. Le ecoballe, gli scarichi tossici del passato, gli scarichi tossici di oggi». Sciolto il primo (anche se Taverna del Re svuotata dal pattume vogliamo vederla coi nostri occhi), restano gli altri due nodi. Sui quali c’è silenzio. O addirittura fastidio: perché parlarne ancora? Un dettaglio dice tutto: su 2.993 notizie Ansa in cui si cita Vincenzo De Luca (ci sarà pure qualche omonimo ma quasi tutte parlano di lui, il governatore) non ce n’è una, neppure una, in cui lui nomini la Resit di Giugliano.
Eppure dopo lo sversamento di 341 mila tonnellate di rifiuti tossici tra i quali 30.600 di schifezze chimiche dell’Acna di Cengio sepolte sotto terra, come scrisse Roberto Russo sul Corriere del Mezzogiorno , la Resit è per il commissario di governo alle bonifiche Mario De Biase la più pericolosa: «Non ci dormo. È il peggio che ci sia in Campania, lì sotto sono stati sversati tutti i veleni d’Italia, insomma, è un incubo».
Il dossier del geologo Giovanni Balestri, del resto, non lascia dubbi: entro il 2064, il percolato altamente tossico che «fuoriesce inesorabilmente dagli invasi sarà completamente penetrato nella falda acquifera che è collocata al di sotto dello strato di tufo sopra il quale si trovano le discariche. I veleni contamineranno decine di chilometri quadrati di terreno e tutto ciò che l’abiterà».
Tema: dato che rifiuti tossici sarebbero stati scaricati per anni anche nelle discariche autorizzate («Magari sulla bolla risultava una cosa e sul camion ce n’era un’altra», sospira Stefano Tonziello, gestore a suo tempo di più immondezzai pubblici) e che perfino alla Resit la bonifica non è manco cominciata (Cantone stesso segnalò che l’appalto era finito anche a imprese condannate per reati ambientali: tutto bloccato) così come in tante altre discariche a rischio, chi ha ragione? Il rapporto (772 pagine) della Commissione rifiuti che denuncia «una catastrofe ambientale» paragonabile alla «diffusione della peste secentesca» o Enzo De Luca che all’Expo ha detto che la regione è prima «per la vastità, qualità e profondità del controllo del proprio territorio e del proprio ambiente» e che «il 97% della Campania è sano e incontaminato»?
Ammesso sia vero: ha fatto i conti su cosa rappresenti quel 3% su un’area regionale di 13.595 chilometri quadrati? Sono 407 chilometri quadri. Venti per venti. Abbondanti. Quattro volte la superficie (117 chilometri quadri) del comune di Napoli. Ma se guardiamo alla «terra buona» e togliamo cioè la montagna (34,5%) e larga parte della collina (50,8%), la pianura (14,7%) un tempo fertilissima dove sono stati scaricati in larga parte i rifiuti tossici si riduce a molto, molto meno. Non bastasse, il suolo effettivamente occupato dal cemento, per l’Ispra, è già il 17,3%. Anche questo in gran parte in pianura. Il che significa che la quota avvelenata di «terra buona» è molto più alta…
Dice che il monitoraggio ufficiale su 1.654 animali («Centotrentuno volpi, 700 lumache e ancora capre e api, con particolare attenzione al miele») e su 2.942 prodotti ortofrutticoli ha dato risultati confortanti. E che anche a Giugliano le fragole, come certificò sul Foglio Salvatore Merlo citando i Nas in un reportage «antropologico» in cui dipingeva donne coi «seni esplosivi ballonzolanti nelle libere vesti e il fiato pesante delle donne dei cannibali», «sono buone. Sono cioè commestibili, sane, non contaminate».
E allora? «Le fragole sane non vogliono dire niente — risponde Giovanni Balestri —. le fragole prendono quello che serve loro dallo strato più superficiale del terreno. I problemi sono sotto, in profondità». Ed è da lì, da quei rifiuti tossici affondati per decenni nel terreno, che verrebbe l’ondata di tumori che falciano, per gli ambientalisti, gli abitanti della Terra dei fuochi.
«La Terra dei fuochi, per come ce l’hanno descritta, non esiste. C’è un’emergenza, nota, e riguarda le ecoballe da smaltire», ha scritto sul suo blog Claudio Velardi, già consigliere di D’Alema a Palazzo Chigi e poi regista delle campagne elettorali di Renata Polverini e di Vincenzo De Luca, accusando dei ritardi «fomentatori politici di tutte le risme: vecchi estremisti di sinistra, nuovi millenaristi vestiti da grillini, preti a caccia di visibilità, finte mamme coraggio. Amen».
Anna Magri aveva un bambino, si chiamava Riccardo, nella foto che mostra aveva un maglioncino a righe e se l’è portato via una patologia tumorale scoperta quando aveva sei mesi: «Allattavo al seno. È passato dal seno direttamente alla macchina del chemioterapico». Fino alla fine. Dice che ha altri figli ma non ha mai pensato di andar via da qui: «Non posso abbandonare Riccardo lì al cimitero». E gli altri due bambini? «Noi mamme ci siamo unite per combattere a nome loro. Perché questa terra venga risanata». Antonio era l’unico figlioletto di Marzia Caccioppoli, un’altra di quelle che Velardi bolla come «finte mamme coraggio»: «Era un bambino sano, faceva nuoto. Vivevamo a Casalnuovo. La notte l’aria era irrespirabile. Un giorno, a otto anni e mezzo, ha avuto un rallentamento motorio. L’abbiamo portato da uno specialista, poi al Gaslini di Genova. Dove hanno accertato che Antonio era stato colpito da un tumore che non colpisce i bambini ma le persone anziane. Visti i risultati della biopsia l’oncologa chiese: “Signora, dove vivete? Vicino a industrie?”. Non capivo. Intorno avevamo campi…». Avvelenati. Però.
«Vent’anni fa, quando qui nasceva un bambino sapeva di avere l’aspettativa di vita di tutti i bambini italiani ma oggi non è più così — accusa l’oncologo Antonio Marfella, dirigente all’Istituto dei tumori «Pascale» —. Oggi chi nasce qui ha dal 20 al 30% di probabilità in più di essere colpito da un tumore infantile. E i tumori infantili rappresentano un marcatore specifico di tensione ambientale». È la paura di numeri ad aver finora frenato il registro dei tumori? «Il registro dei tumori, con primari pagati da primari, c’è da anni e anni. Ma era una scatola vuota. Ci è stato detto che i dati saranno disponibili non prima del 2018…».
Nel frattempo, mentre i veleni del passato restano lì sotto a inquinare le falde e covare nuovi lutti su tempi lunghi, i roghi notturni continuano. L’attivista Enzo Tosti, che dopo anni di battaglie sul fronte della Terra dei fuochi, su e giù per discariche, è stato colpito lui pure dal tumore, mostra un enorme terreno lasciato all’incuria nel comune di Orta di Atella. Tra le erbacce c’è un cartello con la bandiera dell’Unione Europea: «Qui doveva sorgere un consorzio di alta moda. I politici la sbandierarono come una grande occasione. E avrebbe dato lavoro ai ragazzi. Sono rimasti solo i cartelli. Delle fabbriche neanche l’ombra». Meglio: le strade e le piazzole che avrebbero dovuto servire il distretto tessile sono usate per scaricare, giorno dopo giorno, i rifiuti di lavorazione delle uniche fabbriche esistenti. Quelle «inesistenti». Che non risultano essere mai nate, che non ri-sultano avere dipendenti né pagare tasse e contributi, che non risultano produrre nulla: come fantasmi, non possono manco liberarsi degli scarti di lavorazione. E buttano tutto qua e là, per poi mandare qualcuno che li bruci. Magari i bambini rom del campo accanto alla Resit, che crescono cenciosi giocando tra le vicine discariche. «Oggi, e dico oggi, la regione Campania produrrà 6.500 tonnellate di rifiuti urbani ma soprattutto altre 22 mila di rifiuti speciali e non c’è in regione una sola discarica a norma per questi rifiuti. Più altre 6.500 prodotte in quest’area che è quella a più alta densità di produzione clandestina di borse e articoli vari di pellame. Come li smaltiscono? Li scaricano qua e là e li bruciano».
«Glielo diciamo da anni, alle autorità nazionali e locali: o chiudiamo queste fabbriche fantasma mettendo sul lastrico migliaia di persone che lavorano (in nero, ma lavorano) o troviamo il modo per farle emergere dalla clandestinità», insiste don Maurizio, «se non sarà sciolto questo nodo, i roghi non si spegneranno mai» .
(1 — continua)
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
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