La lotteria spagnola

by OMERO CIAI e ALESSANDRO OPPES, la Repubblica | 18 Dicembre 2015 10:14

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Quelle di domenica saranno “le elezioni dell’incertezza”, con quattro partiti (Popolari, Socialisti, Ciudadanos e Podemos) sotto il 25 per cento e tutti gli scenari (e le coalizioni) possibili. Nel Paese della crescita economica (+3,4%) l’unica certezza è la fine del bipartitismo. E la voglia di cambiamento
MADRID. LA Spagna si può guardare anche dalla calle del Carmen, nell’ampia zona pedonale al centro della sua capitale, dove ha sede “Doña Manolita”, la più prestigiosa, e nelle convinzioni popolari la più “fortunata”, delle rivendite di biglietti della Lotteria. Perché Natale in Spagna è sinonimo di “ Gordo”, il “Grasso” premio: una pioggia da 2 miliardi di euro, che ogni anno viene estratto il 22 dicembre.
Ci sono pomeriggi nei quali la coda per comprare un biglietto da “Doña Manolita” si snoda per qualche chilometro risalendo fino alla Gran Via. Due, anche tre ore di attesa per questa abitudine inossidabile all’azzardo che si conserva uguale a se stessa negli anni di crisi come in quelli di crescita. Ragazze in giubbotto di pelle e clochard barbuti spalle a spalle per acquistare un numero del sogno di ogni spagnolo, la cabala del tesoretto. “ El Gordo”, a differenza di altre lotterie è un gioco solidale, si vince poco — massimo 400 mila euro — ma si vince in tanti.
Quello che è cambiato però è tutto ciò che c’è intorno, i consumi sono tornati a crescere (+3 per cento) insieme all’economia e la nuova vivacità si nota perfino nei volti. Anche in politica ciò che sta per accadere con il voto di domenica viene spiegato con questa nuova esuberanza che vuole portarsi via, a spallate, un sistema bipartitico che resiste da quarant’anni ed è stato l’architrave della stabilità nella moderna democrazia spagnola: l’alternanza popolari e socialisti, centro-destra e centro- sinistra.
Dopo il 20 dicembre questo scenario è destinato a cambiare completamente privilegiando non più il confronto sinistra- destra quanto piuttosto quello vecchio e nuovo con l’irruzione nella scena, già collaudato alle amministrative del maggio scorso, di due nuove formazioni, Podemos e Ciudadanos, che hanno fatto saltare il banco della tradizione elettorale spagnola.
È la crisi, che dal 2009 in poi, ha modificato tutto. Anche l’abitudine a schierarsi in due grandi insiemi, socialdemocratici (Psoe) e conservatori (Pp). E se i sondaggi rispecchiano le intenzioni di voto, gli spagnoli se ne infischiano della stabilità delle maggioranze assolute con cui hanno premiato, nei decenni, l’uno o l’altro dei due schieramenti: da González ad Aznar, da Zapatero a Rajoy.
Oggi aspirano, effervescenti, alla diversità. L’ultimo campione del bipartitismo, Mariano Rajoy, che quattro anni fa vinse le elezioni con il 44 percento dei voti e 186 seggi, è arrivato al capolinea. Anche personale, come leader politico senza un grande futuro. Eppure ha fatto moltissimo per cucirsi addosso una rielezione da trionfatore. Ha scelto apposta una data sotto Natale, con la Tredicesima già incassata e un bilancio 2016, approvato, che riduce, di poco ma riduce, le tasse. Ed è stato anche fortunato perché la Spagna è ripartita. Meglio di qualsiasi altro Paese europeo.
Il Pil cresce al 3.4% e lo farà almeno per tutta la metà del prossimo anno. Consumi, turismo ed esportazioni. Come spiega l’economista Emilio Ontiveros «la Spagna ha goduto più di altri del crollo dei prezzi di gas e petrolio, della svalutazione dell’euro rispetto al dollaro e della politica di risanamento del sistema bancario promossa da Bruxelles».
Alla crescita però non si accompagna una creazione di posti di lavoro stabili, la disoccupazione è sempre sopra il 20 per cento. E Rajoy, insieme alla zavorra della corruzione e degli scandali, vecchi e nuovi, che hanno colpito il suo partito popolare, paga, anche nell’immagine, la pesante ristrutturazione del mercato del lavoro. «Sono i salari bassi — dice Ontiveros — che hanno reso più competitivi i prodotti spagnoli all’estero. Non l’innovazione». Dunque, crescita incerta. Un’altra bolla della quale gli spagnoli approfittano festeggiando ma della quale non si fidano e nemmeno s’affidano gratificando nell’urna il leader al comando.
L’altra novità è che la campa-spagnola gna elettorale s’è trasformata in un reality show televisive. Poche piazze, molte comparsate. Un po’ ovunque. E l’hanno vinta i più giovani e telegenici.
Pablo Iglesias di Podemos che era partito malissimo ma che avvicinandosi alla meta insidia, per il primato a sinistra, il Psoe. E Albert Rivera, di Ciudadanos, che raccoglie la maggior parte dei voti in fuga dai popolari. Così abbiamo visto Pedro Sanchez mentre si fa l’aranciata mattutina, Pablo Iglesias cantare una ninna nanna e Mariano Rajoy cimentarsi nell’accensione di una cucina elettrica. Quanto servirà questo sforzo ad avvicinarsi alle persone comuni per convincere una folla di indecisi che gli ultimi sondaggi stimavano intorno al 20 per cento non si sa. Quello che sembra chiaro è che la Spagna si trova alla vigilia di un terremoto che cambierà presto il panorama delle Cortes, la sede del Parlamento a Madrid.
L’unica cosa certa è che Mariano Rajoy arriverà primo. Ma talmente lontano dal numero magico della maggioranza assoluta — 176 seggi — che la sua sarà una vittoria di Pirro. Il suo partito potrà governare in coalizione ma lui, con ogni probabilità, dovrà farsi da parte. Stesso problema per il socialista Pedro Sanchez che, soprattutto se non riuscirà a superare con un po’ di margine Podemos, rischia di essere disarcionato dalla segreteria del Psoe. Ed ecco che due donne, per ora ancora dietro le quinte, s’affacciano nel futuro della politica spagnola. Sono Soraya Saenz de Santamaria, attuale vice di Rajoy, e candidata a succedergli se l’unica strada post elettorale sarà la coalizione con Ciudadanos. E Susana Diaz, la neo governatrice dell’Andalusia, storico serbatoio di voti socialisti.
In queste elezioni dell’incertezza, con quattro partiti sotto il 25 per cento, saranno pochissimi punti in percentuale a decidere vincitori e sconfitti. E tutti gli scenari sono ancora aperti. Perfino quello che Rajoy in queste ore si ostina a chiamare «l’alleanza dei perdenti» con un patto che andrebbe dal Psoe a Podemos fino a quel poco che resta dei comunisti di Izquierda Unida (3 o 5 seggi).
Con esuberanza, entusiasmo e molta spericolatezza la Spagna s’avvia a cancellare bipartitismo e facile stabilità. Dopo inizierà un’altra storia.
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