Offensiva talebana in Afghanistan Tornano le forze speciali Usa e Gb
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L’inverno non è più stagione di tregua. E dopo 14 anni di guerra, a 12 mesi dal grande ritiro internazionale, i talebani sono all’offensiva in Afghanistan.
In tre giorni hanno quasi espugnato Sangin, centro nevralgico nella provincia meridionale di Helmand. Usando gli altoparlanti i miliziani con il kalashnikov hanno intimato ieri la resa agli ultimi soldati e ai poliziotti afghani, mentre nelle due basi governative rimaste cibo e munizioni sono arrivati con un ponte aereo.
Dall’alto sono giunti i rinforzi «morali»: 300 soldati della Nato, tra cui 10 britannici delle forze speciali, sono basati nel vicino Camp Shorabak, sulla carta soltanto con funzione di «consiglieri». I commando Usa invece operano nella zona da un po’. Significativo il ritorno di un contingente britannico, sia pur ristretto, nella provincia dove i soldati di Sua Maestà più hanno combattuto (e sono morti in 100). Anche sul piano emotivo. Sui media le madri di alcuni soldati hanno alzato la voce: per cosa sono morti i nostri figli?
In realtà la caduta di Sangin, culla e mercato dell’oppio afghano, non sarebbe una sorpresa. William Patey, ex ambasciatore Uk, dice al Guardian che le truppe di Kabul hanno sempre avuto e continuerebbero ad avere grosse difficoltà a controllare province a maggioranza pashtun come Helmand. Quello che più preme al presidente Ghani è mantenere il controllo di Kandahar, vero simbolo del Sud. Secondo l’ultimo rapporto Onu, in 30 distretti la guerriglia è padrona. In 398 la minaccia talebana è valutata «alta» o «estrema». Il gruppo non ha mai controllato una fetta così grande di territorio dal 2001, l’anno in cui furono cacciati da Kabul.
Con Siria e Iraq sugli scudi, l’Afghanistan è diventata una retrovia dell’intervento occidentale. Più di 120 mila militari della coalizione sono partiti. I 12 mila rimasti, tra cui i 9.800 americani che il presidente Obama a ottobre ha deciso di mantenere per tutto il 2016, in teoria non possono essere impiegati «in combattimento». Avevano funzioni «di supporto» anche i sei soldati Usa uccisi lunedì, mentre erano di pattuglia con i colleghi afghani nei pressi della base aerea di Bagram, investiti dall’esplosione di un kamikaze a bordo di una motobomba: il più grave attacco contro forze internazionali del 2015. Molto maggiori e a cadenza quotidiana le perdite delle forze nazionali, che a metà novembre ammontavano a 7.200 morti.
Forti sul campo, deboli politicamente e al tavolo negoziale. Il mese prossimo il Pakistan dovrebbe dare il via a una tornata di colloqui tra governo di Kabul e talebani, ma i contrasti all’interno del movimento estremista (e la fragile leadership del mullah Mansour seguita al pasticcio della taciuta morte del mullah Omar) rendono instabile l’intero scenario. La mancanza di un interlocutore unico allunga i tempi di ogni possibile compromesso.
Questo gioca a favore di gruppi che si richiamano all’Isis nell’Est: 3 mila miliziani secondo il generale John Campbell, capo delle forze Usa nel Paese. La radio in pashtun «La voce del Califfato» suona più baldanzosa che mai.
Michele Farina
In tre giorni hanno quasi espugnato Sangin, centro nevralgico nella provincia meridionale di Helmand. Usando gli altoparlanti i miliziani con il kalashnikov hanno intimato ieri la resa agli ultimi soldati e ai poliziotti afghani, mentre nelle due basi governative rimaste cibo e munizioni sono arrivati con un ponte aereo.
Dall’alto sono giunti i rinforzi «morali»: 300 soldati della Nato, tra cui 10 britannici delle forze speciali, sono basati nel vicino Camp Shorabak, sulla carta soltanto con funzione di «consiglieri». I commando Usa invece operano nella zona da un po’. Significativo il ritorno di un contingente britannico, sia pur ristretto, nella provincia dove i soldati di Sua Maestà più hanno combattuto (e sono morti in 100). Anche sul piano emotivo. Sui media le madri di alcuni soldati hanno alzato la voce: per cosa sono morti i nostri figli?
In realtà la caduta di Sangin, culla e mercato dell’oppio afghano, non sarebbe una sorpresa. William Patey, ex ambasciatore Uk, dice al Guardian che le truppe di Kabul hanno sempre avuto e continuerebbero ad avere grosse difficoltà a controllare province a maggioranza pashtun come Helmand. Quello che più preme al presidente Ghani è mantenere il controllo di Kandahar, vero simbolo del Sud. Secondo l’ultimo rapporto Onu, in 30 distretti la guerriglia è padrona. In 398 la minaccia talebana è valutata «alta» o «estrema». Il gruppo non ha mai controllato una fetta così grande di territorio dal 2001, l’anno in cui furono cacciati da Kabul.
Con Siria e Iraq sugli scudi, l’Afghanistan è diventata una retrovia dell’intervento occidentale. Più di 120 mila militari della coalizione sono partiti. I 12 mila rimasti, tra cui i 9.800 americani che il presidente Obama a ottobre ha deciso di mantenere per tutto il 2016, in teoria non possono essere impiegati «in combattimento». Avevano funzioni «di supporto» anche i sei soldati Usa uccisi lunedì, mentre erano di pattuglia con i colleghi afghani nei pressi della base aerea di Bagram, investiti dall’esplosione di un kamikaze a bordo di una motobomba: il più grave attacco contro forze internazionali del 2015. Molto maggiori e a cadenza quotidiana le perdite delle forze nazionali, che a metà novembre ammontavano a 7.200 morti.
Forti sul campo, deboli politicamente e al tavolo negoziale. Il mese prossimo il Pakistan dovrebbe dare il via a una tornata di colloqui tra governo di Kabul e talebani, ma i contrasti all’interno del movimento estremista (e la fragile leadership del mullah Mansour seguita al pasticcio della taciuta morte del mullah Omar) rendono instabile l’intero scenario. La mancanza di un interlocutore unico allunga i tempi di ogni possibile compromesso.
Questo gioca a favore di gruppi che si richiamano all’Isis nell’Est: 3 mila miliziani secondo il generale John Campbell, capo delle forze Usa nel Paese. La radio in pashtun «La voce del Califfato» suona più baldanzosa che mai.
Michele Farina
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