Il «brillante leader» Kim. I segreti dello sciamano tra lager e faide cruente

Il «brillante leader» Kim. I segreti dello sciamano tra lager e faide cruente

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Nel nome del padre. Nel nome del nonno. Ma anche nel nome di se stesso. L’exploit nucleare di Kim Jong-un è un’affermazione di forza a titolo personale e l’assicurazione, davanti al suo popolo, che nulla è cambiato rispetto al passato: nulla, tranne la forza, appunto. Il giovane leader, succeduto al padre Kim Jong-il nel 2011, ha dalla sua parte il conforto di una tradizione confuciana mai esplicitata ma radicata nel profondo della società nordcoreana, dove il rispetto per gli antenati e la gerarchia è tanto, quasi tutto. Gli garantisce credito presso le masse, ben nutrite solo di propaganda, e gli impone di mostrarsi all’altezza dei predecessori. «Suono emozionante» quello della Bomba, quindi.
Quattro anni al potere hanno consentito a Kim Jong-un di modellare una cerchia di gerarchi dei quali fidarsi. Sbarazzandosi, all’occorrenza, di chi magari aveva auspicato una successione non dinastica a Kim Jong-il. Ha fatto giustiziare lo zio e mentore Jang Song-thaek, eliminato il responsabile della difesa Hyon Yong-chol, allontanato la zia Kim Kyong-hui, mentre il «maresciallo» dell’Esercito popolare Ri Ul-sol è morto per cause naturali e il capo negoziatore con i sudcoreani Hyon Yong-chol è scomparso in un «incidente d’auto» (così le fonti ufficiali) solo una settimana fa. Campo libero, dunque, e libero sfogo alla volontà di potenza.
La macchina del consenso in patria non è molto cambiata rispetto ai tempi del padre. Il marxismo-leninismo superato dal credo militarista, autarchico, ultranazionalista del Juche . Culto della personalità all’ennesima potenza con concessioni glamour: una first lady elegante e con borsette griffate mostrata con parsimonia, band nostrane e straniere celebrate a Pyongyang, inaugurazioni di impianti sciistici. Il segreto che permea le attività reali del «Brillante Leader» e i meccanismi del potere, tuttavia, resta totale. E il mistero è una specialità della casa che obbliga così gli osservatori esterni a decifrare i simbolismi occulti di ispezioni a fabbriche o a unità militari.
Che poi la Corea del Nord abbia decine o centinaia di migliaia di detenuti in un sistema di campi di detenzione e di lavoro, che stia in fondo alle classifiche mondiali del rispetto dei diritti umani, è questione che attiene al secondo palcoscenico sul quale si muove Kim, quello globale. Tutto falso, giurano gli ambasciatori di Pyongyang. E per il regime la guerra del 1950-53 è stata vinta ma non è mai finita (questo è un dato reale, alla fine delle ostilità non è mai seguito un trattato di pace); Kim, come il nonno e il padre, racconta al suo popolo di un mondo ostile di imperialisti che assediano il paradiso del socialismo. Le crisi alimentari ricorrenti, come quella degli anni Novanta (la «strenua marcia»), sono presentate in patria come provocate dall’aggressione capitalista.
Il contrasto fra i test nucleari e missilistici e il disastro strutturale di un Paese che ha qualche amico solo fra «Stati canaglia» è parte del rebus. In una recente conversazione con il «Corriere», lo scrittore Lee Eung-jun spiegava che «la Corea del Nord è già collassata. Economicamente non funziona più, si limita a vegetare». Autore di un romanzo su un’ipotetica riunificazione, «La vita privata della nazione», Lee illustrava così una psicologia che s’è fatta ideologia: «È un totalitarismo religioso, non è soltanto comunismo. C’è una specie di trinità: Kim Il-sung padre, Kim Jong-il figlio e la dottrina del Juche spirito santo. Un totalitarismo sciamanico in cui Kim Jong-un non è più nulla. Funziona come le chiese cristiane sudcoreane. In questo Sud e Nord Corea si assomigliano: sono dominate dallo sciamanesimo. Ma io penso che questa cornice di fascismo religioso a Pyongyang sia collassata. Resta una certa energia, resta l’abitudine: ma è inerzia».
Kim «terzo» confida nella tolleranza infastidita della Cina e nell’impraticabilità, per la comunità internazionale, di misure coercitive. Sa che dopo il primo test nucleare (2006) il Consiglio di sicurezza dell’Onu impiegò un giorno a redigere una risoluzione e 5 ad adottarla, 10 giorni e 2 dopo il secondo test (2009), 21 giorni e uno dopo il terzo (2013). Al Sud si sono abituati alle sparate del Nord: «C’è qui un livello doppio: coscienza e incoscienza. Sappiamo che ci sono le minacce ma ci comportiamo come se nulla fosse. Un’incoscienza collettiva», ci spiegava a Seul lo scrittore Lee. Forse lo sa anche Kim Jong-un.


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