Gli spettri dell’innovazione

Gli spettri dell’innovazione

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Codici aperti. Il capitalista di ventura, l’ingegnere e il pubblicitario. In tre saggi la descrizione di altrettante figure che operano per normalizzare la produzione di nuovi manufatti e idee. Wall Street è diventato il motore della ricerca scientifica di base e applicata. Parola dell’economista e capitalista finanziario William H. Janeway. Per il fisico Guru Madhavan, serve un pensiero sistemico modulare. È questo infatti il segreto per dare via libera alla creatività e produrre buoni manufatti. I cacciatori di idee devono infine conoscere bene «la cultura di strada» per vendere una merce sinonimo di uno stile di vita. Il saggio di Wally Olin per Einaudi

Il capitalista di ventura, l’ingegnere, il pubblicitario. Tre figure attorno alle quali è stata cesellata la retorica dell’innovazione, la parola magica per legittimare socialmente il capitalismo come la forma forse imperfetta ma migliore di tante altre nell’organizzare le relazioni umane.

Il capitalista di ventura è, recita la vulgata, colui che mette in rapporto il denaro con le idee. Ha cioè il compito di raccogliere gli iniziali finanziamenti per far decollare iniziative economiche tese alla produzione di prototipi, che in secondo momento possono diventare prodotti da mettere sul mercato. Definisce dunque lo spazio per l’incontro tra la finanza e la produzione. Nell’immaginario collettivo è rappresentato come un personaggio eccentrico restio a mostrarsi in pubblico. Opera dietro le quinte, da dove svolge un’opera di paternage rispetto a uomini – le donne sono poco presenti – che possono avere idee brillanti ma sono incapaci di fare i conti con la realtà.

Nella ormai vasta pubblicistica sull’innovazione il venture capitalist è altresì qualificato come un avido ma pragmatico e lucido corsaro: il suo è il pragmatismo del giocatore d’azzardo. Tutto deve essere calcolato, pianificato, anche il rischio di fallimento. I suoi profitti vengono in un secondo momento, quando cioè l’idea diventa impresa. Su dieci progetti finanziati, solo uno o due sono infatti un successo. Il fallimento è dunque esperienza ricorrente nella sua vita, ma sono inevitabili incidenti di percorso, perché quando il successo arriva c’è la possibilità di far saltare il banco. Infatti, non è un caso che il suo operare sia spesso ricondotto al poker, con i suoi bluff, buio, rilanci.

L’impossibile autenticità

L’ingegnere è invece colui che non inventa nulla. Ricombina le conoscenze date al fine di trovare la soluzione a un problema. Non la migliore, ma l’optimum in un contesto dato. È cioè il vero innovatore, figura prometeica che sfida la realtà e per questo condannato a subire il giudizio degli dei, cioè dei capitalisti che erigono barriere, costruiscono trabocchetti per farlo fallire. Sogna di rendere il mondo un luogo ospitale e sicuro mettendo in opera un metodo di lavoro. Nel tempo ha sostituito la figura shumpeteriana dell’imprenditore come incarnazione della tensione all’innovazione.
Infine, c’è il pubblicitario. A lui il compito di comunicare le virtù delle merci in vendita. Spaccia per buoni, prodotti spesso mediocri. Quel che vende il pubblicitario è una promessa di vita migliore. Nell’immane raccolta di merci del capitalismo fa leva su quel simulacro teorico che è il consumatore. E dopo aver sostenuto che nella vita quotidiana non potesse mancare il junk food, ora invoca il ritorno all’autenticità del cibo biologico; o della produzione a «km. Zero»; o dell’automobile prodotta attraverso il riciclo dei materiali. Si presenta ormai come un convinto sostenitore della decrescita, perché la società dei consumi, dopo aver contribuito ad edificarla, è ormai da considerare come una delle sette maledizioni bibliche. Afferma di conoscere bene l’animale umano con le sue fragilità e psicologia. E per questo lo manipola.

Il suo obiettivo, oltre il guadagno personale, è di lasciare un segno nella storia umana facendo affermare stili di vita incarnati da una marca di sigaretta, di bibite, di elettrodomestici, di capi di abbigliamento, di profumi. È la quintessenza degli opinion makers.

Sono tre figure ampiamente analizzate in altrettanti volumi che hanno il pregio di venire dall’«interno», cioè da un capitalista di ventura, da un ingegnere e da un pubblicitario.

La cattiva finanza

Il primo volume (Fare capitalismo nell’economia dell’innovazione, Franco Angeli, pp. 317, euro 34), scritto da William H. Janeway, per quarant’anni manager di una impresa finanziaria che ha investito nella computer science, nell’industria farmaceutica e nelle biotecnologie. Un finanziere eccentrico, visto i frequenti gli strali contro i tanti Jordan Belford e Gordon Gekko della finanza d’assalto. E tuttavia gli è difficile marcare la differenza tra il suo lavoro e quello dei tanti Wolf of Wall Street.

La finanza, afferma Janeway, deve essere ancella della produzione di merci, circoscrivendo, meglio, limitando il ruolo parassitario della produzione di denaro a mezzo di denaro. In questa mission impossible – impossibile perché contraddetta da quanto sostiene lo stesso autore, quando descrive i cambiamenti di Wall Street, che hanno portato il capitale finanziario ad essere una sorta di governo «politico» del processo di accumulazione capitalistico.

Una crisi dopo l’altra

Il libro è comunque un utile compendio storico degli ultimi quattro decenni del settore high-tech e delle bio-tecnologie. Ci sono tutti i passaggi decisivi, dal proliferare di piccole imprese, ai processi di fusione e concentrazione nella produzione di software, computer e microprocessori, che alimentano tuttavia nascita e morte di tante start-up. Non c’è innovazione senza venture capital è la sua apodittica tesi.

Dopo la lettura del volume è chiaro che per l’autore l’innovazione segue un percorso circolare: nasce nella cooperazione sociale, nella condivisione delle conoscenze, ma poi è ricondotta alle regole bronzee dell’accumulazione capitalista. I capitalisti di ventura sono quindi dei «normalizzatori»: i capitali raccolti sono funzionali affinché l’innovazione assuma la forma dell’impresa capitalista. Un lettore disincantato dei saggi critici sul neoliberismo vi ritroverà molti dei temi inerenti l’individuo proprietario in quanto figura maieutica del regime di accumulazione capitalistica per dispossession.

William H. Janeway è però consapevole che il crollo delle borse nel 2008 ha rotto questo incantesimo. Incantesimo, va da sé, feroce socialmente: il ruolo del capitale di ventura è diventato rilevante con la ritirata strategica dello stato nel finanziare l’innovazione e nella demolizione dei diritto sociali di cittadinanza — e la crisi non è un fattore contingente. La superfetazione della finanza è stato, infatti, l’esito di una gestione di un’altra crisi, quella maturata agli inizi degli anni Settanta del Novecento. La crisi è dunque immanente al capitalismo stesso. A conferma della sua eccentricità Janeway invita a leggere autori non proprio amati dai neoliberisti, come Marx, Keynes, Braudel, Schumpeter per capire il grande disordine mondiale, invocando il ritorno dello Stato nel finanziamento dei processi di ricerca e sviluppo e innovazione, governando anche la «traduzione» dei risultati della ricerca di base in innovazione tecnologica e organizzativa.

La forza dei prototipi

Fare capitalismo nell’economia dell’innovazione spiega come sono ormai finanziati gli atelier dell’innovazione. Guru Madhavan in Come pensano gli ingegneri (Raffaello Cortina, pp. 227, euro 19), prova invece a descrivere come funzionano come se si trattasse di un fenomeno naturale, oggettivo.
Indiano, figlio della modernizzazione del suo paese, Madhavan si è trasferito negli Stati Uniti dove ha lavorato come ingegnere. Per lui sono proprio gli ingegneri che producono innovazione, anche se nel corso del volume chiarisce meglio il suo pensiero. Gli ingegneri non inventano nulla, ma sono loro che creano i prototipi grazie a un metodo definito come «sistemico modulare»: scomporre un problema in tanti sottoproblemi, affrontandoli e risolvendoli attraverso un corpus di conoscenze date. In questo divenire della creazione di innovazione, subentrano tanti momenti diversi riassunti nelle espressioni «pensiero per matrici», «connessione funzionale», «progettazione a ritroso», «stabilità ermeneutica». Tutto ciò per mettere a fuoco la ricombinazione ottimale delle conoscenze date, processo questo sì funzionale all’innovazione che ha la prima tappa nella produzione di prototipi, che devono essere funzionali, concettuali e estetici.

Chi invece deve comunicare il valore d’uso del prototipo è il pubblicitario. Il saggio di Wally Olins Brand New (Einaudi, pp. 183, euro 20) è la denuncia di un pubblicitario del potere manipolatorio della pubblicità. Fattore ampiamente affrontato sin dagli anni Cinquanta del Novecento. Olins affronta però l’inutilità di magnificare le virtù delle merci in vendita, vista la diffidenza del «pubblico» nei confronti dell’advertising. I suoi aneddoti hanno le stesse atmosfere della serie tv Mad Men. I rapporti tra committente e agenzia pubblicitaria, i brainstorming come leva del processo creativo. L’attenzione riservata per la «cultura di strada» in quanto fonte primaria di idee. Tutto finalizzato ad affermare il valore performativo del brand.

Ma la pubblicità è sotto il tiro dei critici della società dei consumi. Per questo, le agenzie dell’advertising hanno pigiato il pedale dell’innovazione stilistica, del messaggio sganciato dalle merci. Anche la vendita di uno stile di vita o del simulacro di status – la macchina potente, il profumo glamour, il vestiario griffato – sono tuttavia messi a critica. La via di fuga è il ritorno all’autenticità per merci ecocompatibili prodotte da imprese socialmente responsabili. Il saggio di Wally Olins è da leggere come un decalogo rivolto principalmente ai «creativi». Più il suo interesse, in particolare modo quando, tra un racconto di disastrose campagne pubblicitarie e un racconto di acquisizioni di imprese che producono merci «autentiche», l’autore afferma che l’innovazione non avviene più nelle aziende, ma fuori dai laboratori di ricerca e sviluppo.

Un inferno molto smart

Le università, come i laboratori di ricerca e sviluppo continueranno tuttavia a svolgere un ruolo fondamentale tanto nella produzione di conoscenza che dell’innovazione. La ripresa di attenzione verso l’intelligenza artificiale – il futuro prossimo del capitalismo è stato definito, nel best seller scritto da Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, come gli anni di una «rivoluzione delle macchine intelligenti» (Feltrinelli) – e la produzione di dispositivi tecnologici smart segnala che la formalizzazione del sapere da parte dei «sapienti» continuerà. Quel che è cambiato è il rapporto tra i luoghi «istituzionali» della produzione e diffusione del sapere e la più generale cooperazione sociale. Tra i due momenti – informale e formale – vige infatti ormai un rapporto osmotico. Non una separazione, bensì una complementarietà tra produzione di contenuti diffusa e la loro formalizzazione. Più che il «buono, il brutto e il cattivo» in conflitto tra loro, le tre figure che gli altrettanti volumi delineano sono i gate keeper che rendono possibile tale osmosi sia nelle imprese che nelle università. Sono cioè figure «politiche» che gestiscono e sviluppano le forme di governance dei processi di innovazione. All’interno proprio di quella dispossession del sapere sans phrase che caratterizza il capitalismo nella sua veste neoliberista.



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