Droni, aerei e proiettili Così El Chapo è finito in manette

by Guido Olimpio, Corriere della Sera | 9 Gennaio 2016 17:56

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  WASHINGTON Il boss dei boss è in manette: Joaquín Loera Guzman, alias El Chapo, 58 anni, almeno quattro mogli, è stato arrestato dopo un conflitto a fuoco a Los Mochis, nello stato messicano di Sinaloa. Il suo regno. Una notizia che solo in parte è una sorpresa, in molti se lo aspettavano con un interrogativo. Questa volta sarà estradato, come promesso, negli Usa? Trattandosi del padrino della droga è bene prendere tutte le ricostruzioni con cautela. E vedrete che altre seguiranno.
Partiamo da quello che è trapelato. I fanti di marina lo hanno localizzato, alle 4.30, nella cittadina vicino alla costa pacifica grazie ad una soffiata. E l’operazione non è stata facile: le guardie del corpo hanno aperto il fuoco ma sono stati neutralizzati. Almeno cinque di loro hanno perso la vita, sei catturati. Poderoso l’arsenale, composto da mitra, fucili di precisione calibro 50 in grado di perforare blindature, lanciagranate e pistole. Un equipaggiamento da guerriglieri che è normale per i banditi messicani. Lo scontro di Los Mochis è arrivato dopo mesi di interventi robusti, una risposta dopo la clamorosa fuga del criminale, l’11 luglio, attraverso un tunnel dal carcere di massima sicurezza dell’Altiplano. Impresa non nuova: già nel 2001 era riuscito a svignarsela usando un cesto della biancheria sporca. Due episodi seguiti dalle accuse di complicità verso le autorità, sospettate di averlo rimesso in libertà nel nome di un patto di collaborazione contro gli altri criminali. Sospetti resi ancora più forti dai segnali d’allarme lanciati dagli Stati Uniti e ignorati. In realtà dopo l’evasione il governo ha messo in campo risorse, uomini e mezzi. I soldati hanno condotto numerose operazioni appoggiate dall’intelligence americana. La Dea L’annuncio Il presidente Peña Neto ha annunciato trionfalmente: «Missione compiuta» ha messo a disposizione intercettazioni, un drone e probabilmente aerei speciali in grado di captare comunicazioni.
Un apparato accompagnato da una taglia Usa di cinque milioni di dollari, oltre ai tre offerti dal Messico, giustificata dalla presenza del suo network in America e sancita dalla classificazione di nemico pubblico numero 1 a Chicago. I commandos, a fine ottobre, hanno dato l’assalto ad un grumo di casupole a La Piedrosa, dove hanno trovato un accampamento che sarebbe stato usato dal boss e dalla moglie, Emma Coronel, la madre di due gemelline fatte nascere in California. I soldati, però, hanno mancato il bersaglio grosso in una storia con due dettagli inverificabili. Il primo raccontava che Guzman stava per essere preso grazie all’errore del cognato, il secondo è che si era ferito ruzzolando lungo il pendio. Poi, a fine dicembre, sempre i marines — il corpo che gode dell’appoggio totale di Washington — hanno lanciato un secondo blitz creando molta pressione sul fuggitivo, incalzato dalla Legge e preoccupato dai tradimenti dei rivali, pronti a venderlo. L’attenzione si è concentrata sul triangolo d’oro, nei villaggi di Durango e Sinaloa. C’è stato un blitz della Marina, poi una battaglia a La Tuna tra i sicari guidati da Au- reliano Loera, il fratello del Chapo, con un clan nemico, scontro che poteva anche essere una copertura per proteggere Guzman costretto a spostarsi a Los Mochis. Giorni duri per i latitanti, con molte perdite, compresa la morte di un nipote del padrino.
Tutti segnali che la morsa stava per chiudersi. E così è stato con il trionfale annuncio del presidente Peña Neto, «missione compiuta». Ma per esserlo veramente serve altro. L’estradizione negli Stati Uniti, una confessione piena con nomi e cognomi di chi gli ha permesso di diventare il re dei trafficanti.
Guido Olimpio
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