La perdita della speranza

La perdita della speranza

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È COME se i profughi diretti in Europa viaggiassero su un treno sbagliato, che va nella direzione opposta a quella sperata. Curiosamente, però, nessuno di loro cerca di fermare il convoglio, né tira il freno di emergenza né tenta di scendere al volo. Soprattutto, nessuno si chiede che cosa li aspetti al capolinea. E se ci fosse Marine Le Pen alla stazione di arrivo? O Donald Trump? O di nuovo le brigate dello Stato Islamico? O il diavolo in persona?
QUESTO è il paradosso dell’ondata migratoria verso il Vecchio continente, che si può capire soltanto guardando da che cosa fugge tutta questa gente. È vero, ci sono state altre grandi migrazioni in Europa, e la violenza che ci affligge oggi non è più spaventosa di quella che conobbero i miei genitori o i miei nonni, così come la nostra crisi economica non è più profonda di quella che funestò l’Occidente negli anni Trenta. Ma c’è una grande novità rispetto al passato: l’assenza di speranza. Se oggi nel nostro mondo ci fosse più speranza, sono certo che la gente scenderebbe nelle piazze per aiutare i profughi, e che sarebbe pronta a fare un nuovo “maggio ‘68” pur di salvarli.
È piuttosto il contrario che avviene. Basta pensare a Schengen, che ci aveva reso così felici di aver costruito un Continente senza frontiere. Ma che cosa fanno i leader europei? Alla prima crisi chiudono i confini rimettendo in questione gli accordi firmati solo pochi anni fa. E che dire della Svezia, Paese storicamente democratico. Nessuno, infatti, ha dimenticato che durante la Seconda guerra mondiale, quando era una nazione neutrale, accolse quegli ebrei danesi che rischiavano di essere deportati nei lager nazisti e che arrivano a bordo di pescherecci stretti come sardine. Ricordiamo anche che Stoccolma inviò una sua delegazione in Ungheria nel tentativo di salvare altri ebrei che Eichmann stava inviando ad Auschwitz.
C’è da chiedersi perché gli svedesi di oggi sono meno solidali degli svedesi di ieri, adesso che non hanno più l’esercito del Reich alle loro frontiere e che vivono tutti nel benessere. Di che cosa hanno paura? Temono forse che i migranti mangino il loro pane, che sposino le loro donne, che rubino loro il lavoro? È questa forma di egoismo che mi preoccupa, perché dietro di esso si nasconde la paura di qualcosa d’indefinito. Certo, c’è il timore dell’Islam. Ma al mondo i musulmani sono 1,3 miliardi di persone, e non sono tutti terroristi. Anzi, quelli che si rivendicano dello Stato Islamico sono un’infima minoranza, a dir tanto 50mila uomini, e noi europei siamo 500 milioni di persone. Quanto agli intellettuali, su questa vicenda mi sembrano molto confusi. Da un lato ci sono i benpensanti, che sostengono che non bisogna in alcun modo tirare in ballo l’Islam in quanto tale; e dall’altro, ci sono i malpensanti, ossia quelli dell’estrema destra xenofoba, che usano la religione per designare il “nemico” e per ottenere da parte dei governi leggi più dure per combatterlo. Viviamo una tale crisi morale che non ci sono più modelli da proporre. E la nostra società non piace più per via della disoccupazione, degli stipendi che non crescono o delle troppe tasse che dobbiamo pagare. Perché dunque dover dimostrarsi solidale con quei musulmani o con quegli arabi cristiani che fuggono dalla Siria, dove sono minacciati di morte? È come se mancasse un buon motivo per rimboccarsi le maniche e cominciare ad aiutare il prossimo. Per il momento siamo tutti sullo stesso treno, che va nella direzione sbagliata. Chi ne è consapevole si limita a urlarlo ai quattro venti, senza avere però il coraggio di scendere alla prima stazione.
Ho appena sentito sulla Bbc di un villaggio siriano assediato da mesi dalle truppe del regime di Damasco, non lontano dal confine libanese, la cui popolazione per non morire di fame si nutre di fili d’erba. Per salvare quei poveretti basterebbe aggrapparsi alla morale che abbiamo elaborato attraverso la nostra storia, dai filosofi greci alla Bibbia fino ad arrivare all’Islam, e che è sempre valida. La riassume una sura del Corano che si ritrova anche nel Talmud e che dice che salvare una vita umana equivale a salvare tutta l’umanità. E che uccidere un uomo è come uccidere l’intera umanità.


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