Meta-terrorismo

by Francesco Strazzari, il manifesto | 17 Gennaio 2016 9:10

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Jihadismo e comunicazione. Il meta-terrorismo si nutre dell’amplificazione dei codici comunicativi che l’Isis ha mutuato da Hollywood, investendo molto nella post-produzione e nella strategie di marketing e lancio in prime time. Invece che interrogare esperti di sociologia visuale che tramite quattro coordinate tecniche sappiano decodificare i messaggi e inserire le immagini in un contesto interpretativo, i nostri media le infarciscono di commenti che ne sublimano immancabilmente il potere comunicativo.

Le immagini che arrivano nelle ore dell’attacco jihadista all’hotel Splendid di Ouagadougou si ripetono, inseguendosi identiche su tutti i canali.

L’assalto gemello dello scorso novembre, che prese di mira il Radisson Blue Hotel nella capitale del Mali, aveva già proposto lo schema: la replica «a rullo» della stessa sequenza, una ripresa del vano scale e poco altro nei dintorni dell’albergo, e un imbarazzante vuoto di altre immagini della città e del paese. Poi arrivano i commentatori del caso – spesso volti consueti avvezzi a parlare di tutto — affiancati da immagini di propaganda jihadista, intervallate da mappe improvvisate.

Nell’era dell’informazione globale, questo è lo sconcertante poco con cui abbiamo ormai quotidianamente a che fare: un chiodo ribattuto all’infinito, una miscela di immagini catturate fra circuiti internazionali e social media. Bagliori violenti, punti che raramente vengono uniti da analisi minimamente convincenti: quando si parla di terrorismo ognuno dice un po’ quello che gli pare, vai poi tu a verificare.

Una settimana fa Cheikh Ould Salek evade dal carcere di Nouakchott, capitale della Mauritania, dove pende sulla sua testa una condanna a morte per attentato alla vita del Presidente. La sera prima della fuga aveva chiamato a raccolta i compagni di cella, distribuendo laute somme di danaro; la mattina dopo sulla sua branda hanno trovato una bandiera di Al Quaeda nel Maghreb (Aqim) e una dedica al fantomatico leader della brigata Al-Morabitoun, Mokhtar bel Mokhtar – noto come le borgne, «il guercio». Più volte dato per morto (da ultimo dopo un raro attacco aereo statunitense sui cieli libici) «il guercio» si è recentemente riallineato con i comandi di Aqim, impegnandosi nella costituzione di un ampio fronte quaedista ad ampio raggio, «Al-Qaeda dell’Africa Occidentale».

Sotto la presidenza di Blaise Compaoré, cacciato da una sollevazione popolare un anno fa, Ouagadougu giocò un importante ruolo di mediazione su diversi fronti, dal conflitto in Costa d’Avorio a quello nel Nord del Mali, impegnandosi in trattative che condussero al rilascio di ostaggi occidentali tenuti in mani jihadiste.

Scosso dalle convulse vicende della transizione, il Burkina Faso resta un paese a forte presenza cristiana, dove è debole la pressione di gruppi per l’introduzione della sharia, e dove la propaganda armata quaedista ha tutto sommato poco senso: gli attacchi di ieri vanno dunque letti alla luce di una emergente serialità su scala regionale.

Perché questa lettura sia possibile occorre cercare di illuminare le zone d’ombra del racconto ufficiale – magari proprio a partire dalle incongruenze che hanno segnato l’attacco al Radisson di Bamako, dove gli attentatori ebbero anche il tempo per mettersi a cucinare.

Nulla di tutto questo traluce dai resoconti mediatici a cui ci stiamo abituando, che sostanzialmente alternano immagini di palazzi assediati e clip di propaganda jihadista. Quando si parla di Europa lo schema è ormai consolidato, e si appresta a diventare un genere vero e proprio: si parte con la notizia di «allerta terrorismo a (città X)», corredata da foto di polizie pesantemente armate e strade deserte; a seguire, precisazioni da fonti rigorosamente anonime, e commenti di «esperti» che sempre più spesso si sporgono a speculare su scenari tanto implausibili quanto terrificanti: ad esempio, armi la cui stessa esistenza stessa è un atto sostanzialmente speculativo, come i dispositivi di dispersione radiologica.

Questo genere emergente può essere ricondotto a un fenomeno specifico, a cui è bene dare un nome: meta-terrorismo. Adam H. Johnson sulla rivista statunitense Alternet (Independent Media Institute) lo definisce come il terrore propagato dalla replica non-stop di attacchi terroristici passati e dalla continua speculazione sugli attacchi futuri.

Il meta-terrorismo si nutre dell’amplificazione dei codici comunicativi che l’Isis ha mutuato da Hollywood, investendo molto nella post-produzione e nella strategie di marketing e lancio in prime time. Invece che interrogare esperti di sociologia visuale che tramite quattro coordinate tecniche sappiano decodificare i messaggi e inserire le immagini in un contesto interpretativo, i nostri media le infarciscono di commenti che ne sublimano immancabilmente il potere comunicativo.

Sicuramente sono in arrivo servizi sulle destinazioni di vacanza degli italiani al riparo dal rischio-terrorismo. Un sistema comunicativo in crisi trova nel meta-terrorismo un’occasione per rifiatare.

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