by Giuseppe Allegri *, il manifesto | 19 Gennaio 2016 12:10
Il lavoro è diventato una chimera per molti disoccupati, inoccupati e sottoccupati. È un’ossessione per chi resta ingabbiato in «lavoretti» sempre più impoveriti, insicuri e intermittenti. Ciononostante in questo inverno del 2016 continuano a proliferare «Carte» e «Statuti» intorno al lavoro. Questo attivismo è l’effetto della congiuntura economica, e dei magri effetti (per usare un eufemismo) del pachidermico pacchetto chiamato Jobs Act. Se il governo va avanti sulla sua strada, Cgil e le associazioni dei freelance e del lavoro autonomo sembrano volere rimettersi in gioco.
Il Governo Renzi sta lavorando a una bozza preliminare di un Disegno di Legge, collegato lavoro alla Legge di stabilità che prevede uno «Statuto per il lavoro autonomo» e misure per il «lavoro agile», o «smart working», quel lavoro «da remoto», che si sviluppa tramite piattaforme e supporti tecnologici. Con quest’ultima misura intende regolamentare solo il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nelle grandi imprese. Nel frattempo, una prima rete di soggetti associativi formatisi nel concreto del vivere sociale, nelle mille forme dei lavori intermittenti, autonomi e professionali, riuniti intorno alla «Coalizione 27 Febbraio», promuoverà la scrittura collettiva di una «Carta dei diritti e dei princìpi del lavoro autonomo e indipendente»[1].
In questa cornice si inserisce l’iniziativa della Cgil sui 97 articoli[2] del Progetto di legge di iniziativa popolare sulla «Carta dei diritti universali del lavoro»[3]in precedenza definito — forse più appropriatamente — nuovo «Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori». Il sindacato di Corso Italia sembra avere accettato un ripensamento della propria ragion d’essere, forse con qualche decennio di ritardo. L’impegno è stato preso ai massimi livelli, per bocca del segretario generale Susanna Camusso secondo la quale è «evidente che lo Statuto del 1970 di per sé non basta più, per la semplice ragione che quella legge era stata pensata per un’unica tipologia di rapporto di lavoro», mentre «la distinzione che allora appariva assolutamente chiara, tra lavoro subordinato a tempo indeterminato e autonomo, oggi non c’è più».
Il ragionamento di Camusso viene da lontano. Riemerge da un dibattito presente nella Cgil già nei primi anni Novanta, quando si affermò in Italia, e nel pensiero sociale e giuslavoristico più avanzato in Europa per cui i diritti universali devono essere imputabili innanzitutto alle persone, a partire dal loro percorso esistenziale. Al centro della scena c’è il soggetto e la persona — per riprendere una bella analisi formulata negli anni Novanta del Novecento dal mai abbastanza rimpianto Massimo D’Antona. Ci sono l’uomo, la donna, le loro esistenze concrete, sociali. Poi viene la loro identità di lavoratori e lavoratrici.
Dopo una sin troppo lunga pausa, queste idee tornano d’attualità. È bene ripercorrerle in maniera tempestiva per non perdere l’originaria, e avanzatissima ambizione che portò, vent’anni fa, il grande giuslavorista francese Alain Supiot a parlare del superamento delle frontiere tra lavoro autonomo e subordinato. Supiot indicava la necessità di un nuovo diritto sociale del lavoro che unisse questi due continenti da sempre separati in un equilibrio più maturo. La Cgil di Bruno Trentin avanzò in quegli anni l’idea di una «Carta del lavoro» che potesse «servire da riferimento a tutte le forme di rapporti di lavoro, subordinato e non subordinato». Sempre negli anni Novanta Trentin iniziò a confrontarsi con il grande intellettuale francese André Gorz sulla fine della società salariale e l’affermazione di un concreto Welfare universale, basato su strumenti comuni di sicurezza sociale. Mentre erano di pochi anni precedenti le proposte normative della Consulta giuridica della Cgil intorno all’ipotesi di un Testo Unico sul lavoro che garantisse diritti nella prestazione lavorativa (rapporto di lavoro), nel mercato del lavoro (società) e nelle azioni collettive e sindacali.
Ci chiediamo se la «Carta dei diritti universali del lavoro» della Cgil riesca a porsi all’altezza di questi nobili, e poi abbandonati, tentativi. La sensazione è che quell’ormai antica anima innovativa e riformista sembra stemperarsi nel riferimento a un lavoro universalmente astratto che rischia di perdere di vista le esperienze materiali delle persone. Interessante resta la tensione universalistica e il progetto, più volte ribadito da Camusso, di «dare il via a una nuova stagione, differente, non più difensiva». Sono anni che non si passa all’attacco, il solo evocare l’idea è suggestiva, anche se ancora poco determinata.
È auspicabile che la partecipazione non si limiti agli iscritti del sindacato, ma coinvolga — in modi ancora da individuare e in piena autonomia — gli esclusi da una piena cittadinanza sociale, il quinto stato dei lavori intermittenti, precari, autonomi, innovativi. C’è da auspicare una primavera dove questi soggetti, indipendenti come gli iscritti al sindacato, prendano voce direttamente, o in coalizione, scrivendo i propri diritti in prima persona. Resta sempre da rivendicare una vita degna, l’autodeterminazione delle scelte esistenziali, ancor prima che lavorative.
*Autore con Roberto Ciccarelli di “Il Quinto stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro” e con Giuseppe Bronzini “Libertà e lavoro dopo il Jobs Act” (DeriveApprodi)
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