Regeni torturato perché rivelasse la rete di contatti sul sindacato
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Le persone che hanno catturato Giulio Regeni volevano conoscere l’identità delle sue fonti. Scoprire chi gli avesse passato le informazioni contenute nei suoi articoli pubblicati sotto pseudonimo sull’agenzia Nena news — specializzata sui temi del Medio Oriente — e in parte ripresi dal quotidiano Il Manifesto . Individuare la «rete» di amici e conoscenti che lo aiutava nelle sue ricerche sul sindacato. Per questo lo hanno sottoposto a interrogatori pesanti e poi — evidentemente di fronte al suo rifiuto a collaboratore — lo hanno seviziato fino a ucciderlo.
È questa la convinzione degli investigatori che cercano la verità sulla fine dello studente italiano di 28 anni ritrovato cadavere mercoledì sera in un fosso sulla strada che dal Cairo porta ad Alessandria. Una ricostruzione che porta ai servizi di sicurezza locali, gli stessi che avrebbero poi cercato di depistare le indagini.
«Morte causata da prolungate torture», è scritto nei documenti trasmessi a Roma per via diplomatica dopo il primo esame del corpo. E questo basta a capire quanti e quali misteri debbano essere adesso svelati. Compreso quello legato ai due arresti annunciati ieri e poi non confermati, che potrebbero essere stati soltanto una «copertura» per provare a sviare gli accertamenti.
Il giorno del decesso
Regeni scompare nel pomeriggio del 25 gennaio scorso. Per sei giorni la notizia viene tenuta riservata, ma il 31 gennaio di fronte al muro eretto dalle autorità egiziane, che negano di sapere che fine possa aver fatto, la Farnesina decide di renderla pubblica con una nota ufficiale. Polizia e servizi segreti al Cairo continuano a negare di avere informazioni. Il 3 febbraio — di fronte alle insistenze italiane che minacciano la crisi diplomatica — l’ambasciatore Maurizio Massari viene informato del ritrovamento del cadavere. Il referto parla di «numerosi tagli e bruciature», il corpo è martoriato. I medici evidenziano le «prolungate torture» e ciò fa presumere che il giovane sia rimasto diversi giorni nelle mani dei suoi aguzzini. Per questo ha un’importanza fondamentale l’autopsia che si svolgerà oggi a Roma, pur nella consapevolezza che prima della consegna della salma alle nostre autorità, possano esserci stati interventi tali da alterarne lo stato.
La «rete» dei contatti
La tesi per il dottorato di ricerca che stava svolgendo aveva portato Regeni a incontrare numerose persone del sindacato, qualcuno dice che avesse partecipato anche a qualche riunione. I carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco incaricati delle indagini stanno cercando di ricostruire i suoi ultimi contatti nella convinzione che la polizia locale lo avesse già fatto e per questo avesse cominciato a tenerlo sotto controllo. L’arresto potrebbe essere avvenuto nel corso di una «retata», ma con il trascorrere delle ore si fa strada l’ipotesi che fosse in realtà mirato e che tra gli obiettivi della cattura ci fosse anche quello di impedirgli di continuare a pubblicare articoli, evidentemente ritenuti dannosi per il regime. Del resto Nena news è un’agenzia online ed è molto diffusa tra gli attivisti, soprattutto per la posizione presa in favore della rivoluzione cominciata con la primavera araba e per le posizioni di appoggio alla causa dei palestinesi.
L’altra vittima
Le «modalità» dell’omicidio sono identiche, persino nei dettagli come le date e le «giustificazioni», a quelle di un altro caso che risale a tre anni fa. Era il 25 gennaio, quando scomparve Mohammed Al Jundi, ventottenne impegnato contro il regime. Arrestato e torturato dalla polizia fu ritrovato in un ospedale il 3 febbraio e morì il giorno dopo. Anche per lui la prima versione fornita a familiari e amici parlava di un incidente stradale. Esattamente come per Giulio Regeni. Entrambi vittime di una repressione che ha coinvolto centinaia di persone. Ecco perché c’è grande cautela rispetto alla collaborazione assicurata dalle autorità egiziane. Il rischio è che un’indagine congiunta debba accontentarsi di analizzare le circostanze fornite dalla polizia e dai servizi di sicurezza locali, senza alcuna possibilità di verifica indipendente. E dunque di continuare a scontrarsi con il muro di silenzi e bugie che hanno già segnato questi dieci giorni.
I depistaggi
In questo quadro sembra rientrare l’annuncio, poi smentito, dei due arresti avvenuti ieri al Cairo, e soprattutto la notizia, circolata per tutto il pomeriggio e poi «negata categoricamente» dai servizi segreti italiani, che Regeni fosse un collaboratore o addirittura un agente dell’Aise, l’Agenzia per la sicurezza estera. E dunque che possa essere stato punito come spia. Un altro tentativo, assicurano gli investigatori, di depistare l’inchiesta. Il timore della diplomazia è che alla fine si cerchi di chiudere il caso con una verità di comodo, che il regime egiziano — per salvaguardare i rapporti bilaterali — consegni all’Italia finti colpevoli. E tenti di chiudere il caso prima possibile.
È questa la convinzione degli investigatori che cercano la verità sulla fine dello studente italiano di 28 anni ritrovato cadavere mercoledì sera in un fosso sulla strada che dal Cairo porta ad Alessandria. Una ricostruzione che porta ai servizi di sicurezza locali, gli stessi che avrebbero poi cercato di depistare le indagini.
«Morte causata da prolungate torture», è scritto nei documenti trasmessi a Roma per via diplomatica dopo il primo esame del corpo. E questo basta a capire quanti e quali misteri debbano essere adesso svelati. Compreso quello legato ai due arresti annunciati ieri e poi non confermati, che potrebbero essere stati soltanto una «copertura» per provare a sviare gli accertamenti.
Il giorno del decesso
Regeni scompare nel pomeriggio del 25 gennaio scorso. Per sei giorni la notizia viene tenuta riservata, ma il 31 gennaio di fronte al muro eretto dalle autorità egiziane, che negano di sapere che fine possa aver fatto, la Farnesina decide di renderla pubblica con una nota ufficiale. Polizia e servizi segreti al Cairo continuano a negare di avere informazioni. Il 3 febbraio — di fronte alle insistenze italiane che minacciano la crisi diplomatica — l’ambasciatore Maurizio Massari viene informato del ritrovamento del cadavere. Il referto parla di «numerosi tagli e bruciature», il corpo è martoriato. I medici evidenziano le «prolungate torture» e ciò fa presumere che il giovane sia rimasto diversi giorni nelle mani dei suoi aguzzini. Per questo ha un’importanza fondamentale l’autopsia che si svolgerà oggi a Roma, pur nella consapevolezza che prima della consegna della salma alle nostre autorità, possano esserci stati interventi tali da alterarne lo stato.
La «rete» dei contatti
La tesi per il dottorato di ricerca che stava svolgendo aveva portato Regeni a incontrare numerose persone del sindacato, qualcuno dice che avesse partecipato anche a qualche riunione. I carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco incaricati delle indagini stanno cercando di ricostruire i suoi ultimi contatti nella convinzione che la polizia locale lo avesse già fatto e per questo avesse cominciato a tenerlo sotto controllo. L’arresto potrebbe essere avvenuto nel corso di una «retata», ma con il trascorrere delle ore si fa strada l’ipotesi che fosse in realtà mirato e che tra gli obiettivi della cattura ci fosse anche quello di impedirgli di continuare a pubblicare articoli, evidentemente ritenuti dannosi per il regime. Del resto Nena news è un’agenzia online ed è molto diffusa tra gli attivisti, soprattutto per la posizione presa in favore della rivoluzione cominciata con la primavera araba e per le posizioni di appoggio alla causa dei palestinesi.
L’altra vittima
Le «modalità» dell’omicidio sono identiche, persino nei dettagli come le date e le «giustificazioni», a quelle di un altro caso che risale a tre anni fa. Era il 25 gennaio, quando scomparve Mohammed Al Jundi, ventottenne impegnato contro il regime. Arrestato e torturato dalla polizia fu ritrovato in un ospedale il 3 febbraio e morì il giorno dopo. Anche per lui la prima versione fornita a familiari e amici parlava di un incidente stradale. Esattamente come per Giulio Regeni. Entrambi vittime di una repressione che ha coinvolto centinaia di persone. Ecco perché c’è grande cautela rispetto alla collaborazione assicurata dalle autorità egiziane. Il rischio è che un’indagine congiunta debba accontentarsi di analizzare le circostanze fornite dalla polizia e dai servizi di sicurezza locali, senza alcuna possibilità di verifica indipendente. E dunque di continuare a scontrarsi con il muro di silenzi e bugie che hanno già segnato questi dieci giorni.
I depistaggi
In questo quadro sembra rientrare l’annuncio, poi smentito, dei due arresti avvenuti ieri al Cairo, e soprattutto la notizia, circolata per tutto il pomeriggio e poi «negata categoricamente» dai servizi segreti italiani, che Regeni fosse un collaboratore o addirittura un agente dell’Aise, l’Agenzia per la sicurezza estera. E dunque che possa essere stato punito come spia. Un altro tentativo, assicurano gli investigatori, di depistare l’inchiesta. Il timore della diplomazia è che alla fine si cerchi di chiudere il caso con una verità di comodo, che il regime egiziano — per salvaguardare i rapporti bilaterali — consegni all’Italia finti colpevoli. E tenti di chiudere il caso prima possibile.
Fiorenza Sarzanini
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