Il Papa chiede perdono agli indios
SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS (CHIAPAS) «Viva il Papa della lotta! Viva il Papa della Chiesa dei poveri!». Sulla grande spianata di San Cristobal de Las Casas, dove “Papa Francisco” si è spinto in elicottero valicando le montagne del Chiapas, gli indios del Messico acclamano l’uomo che vedono come loro fratello, vicino alla loro anima, ai loro interessi, alla terra. Ed è per questo che Jorge Bergoglio è arrivato fin qui. Prima con un viaggio in aereo che lo ha spinto a sud del Paese, e poi ancora in volo per raggiungerne la regione più povera. Dove, ora, un sole feroce scalda i centomila che lo aspettano fino dalla sera prima.
E alla gente che lo ascolta in silenzio, vestendo gli abiti rossi e colorati di questa terra ricca di fascino, il Papa chiede perdono. «Perdon hermanos», perdono fratelli. «Il mondo di oggi ha bisogno di voi!». Gli indios non si aspettavano questo affondo di comprensione. Francesco li sorprende e prosegue: «Che tristezza. Quanto farebbe bene a tutti noi fare un esame di coscienza e imparare a dire: perdono».
Nel Chiapas della rivolta zapatista guidata dal subcomandante Marcos, il Pontefice arriva e chiede scusa per i ripetuti torti subiti. E per le spoliazioni delle loro terre. Riconosce che «molte volte, in modo sistematico e strutturale, i vostri popoli sono stati incompresi ed esclusi dalla società. Alcuni hanno considerato inferiori i loro valori, la loro cultura e le loro tradizioni. Altri, ammaliati dal potere, dal denaro e dalle leggi del mercato, li hanno spogliati delle loro terre o hanno realizzato opere che le inquinavano».
Francesco qui si trova visibilmente a suo agio. Questa è la gente a lui vicina, questa è la sua terra: «La sfida ambientale che viviamo e le sue radici umane ci toccano tutti. E ci interpella. Non possiamo più far finta di niente di fronte a una delle maggiori crisi ambientali della storia. In questo voi avete molto da insegnarci. I vostri popoli, come hanno riconosciuto i vescovi dell’America Latina sanno relazionarsi armonicamente con la natura, che rispettano come fonte di nutrimento, casa comune e altare del condividere umano».
E allora parte una dura condanna contro il “saccheggio” della natura. Bergoglio, nell’omelia, giunge a citare il “Popol Vuh”, ossia la raccolta di miti e leggende dei gruppi etnici che abitarono la terra Quiché, uno dei regni maya in Guatemala. Arriva a pronunciare frasi nelle lingue indigene: prima lo tseltal, poi il ch’ol, infine il tsotsil. «La nostra oppressa e devastata terra — aggiunge — protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla».
Alla “supplica” dei fedeli c’è commozione. La preghiera è affidata a un indio, che declama e piange, spiegando la povertà e le tragedie sofferte dalla sua gente. Tutti gli indios sul piazzale lo ascoltano a capo chino, in ginocchio, con le mani sul viso, sul capo. Anche Il Papa resta assorto. Poi un grido finale, liberatorio, lo risveglia: «Francisco, amigo, los indios estan contigo! ».
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