Il duello Apple – Fbi

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NEW YORK Il diritto-dovere di uno Stato di proteggere con tutti i mezzi i suoi cittadini contro il diritto di questi stessi cittadini a non vedere i propri dati personali, compresi quelli relativi alla salute e gli affari privati, frugati dal governo e, potenzialmente, anche da chiunque altro. O, se preferite, il rischio che la chiave anti-privacy che dovrebbe essere costruita da Apple per consentire all’Fbi di indagare sui terroristi della strage di San Bernardino venga un giorno reclamata (o rubata) da regimi dittatoriali per farne un uso ben peggiore, contro il rischio che i giganti della Silicon Valley (Apple e Google in primo luogo) neghino agli inquirenti l’accesso a dati criptati preziosi per combattere terroristi e criminali comuni non per difendere un principio sacrosanto, ma per proteggere un ricco business: quello della sicurezza dei dati.
A un primo sguardo il caso esploso ieri con la decisione della Apple di respingere l’ordinanza dei giudice federale di Los Angeles che la obbliga a fornire all’Fbi tutta l’assistenza necessaria per decriptare i dati contenuti nell’iPhone di uno degli attentatori della strage di San Bernardino rappresenta l’inammissibile ribellione di una società privata ai poteri sovrani dello Stato che, per difendere i cittadini da minacce esterne e interne, ha non solo il monopolio dell’uso della forza ma anche quello di uno spionaggio che, se necessario, può violare i confini della privacy. E la Apple che, come altri gruppi della Silicon Valley, in passato ha accettato compromessi con regimi dittatoriali pur di non perdere l’accesso a mercati importanti, non può certo ergersi a garante supremo dei diritti dei cittadini.
Approfondendo una questione che ha aspetti tecnici e anche implicazioni politiche molto complessi, le certezze iniziali vacillano. Da un punto di vista giuridico è facile prevedere che la disputa — alimentata anche dal fatto che il magistrato, per giustificare il suo ordine, ha dovuto fare ricorso a una legge del 1789, l’anno della rivoluzione francese — finirà davanti alla Corte Suprema: un organo che ha tempi di decisione molto lunghi.
Da un punto di vista tecnico, invece, il nodo più delicato da sciogliere è quello della natura dell’intervento richiesto dalla magistratura. «Chiediamo una soluzione da usare solo in questo caso specifico, non una backdoor (cioè una “porta posteriore” di accesso illimitato)», assicura il giudice Sheri Pym che, nell’emettere la sua ordinanza, ha anche concesso alla società di Tim Cook un certo margine di manovra: può respingere la richiesta della magistratura se è in grado di dimostrare che è troppo onerosa o se riesce a proporre una soluzione alternativa per arrivare allo stesso risultato. Nella sua risposta, però, Tim Cook si espone in prima persona con una lettera ai clienti di Apple nella quale non solo respinge la richiesta del giudice e non offre una soluzione alternativa, ma sostiene che ciò che viene richiesto è esattamente ciò che il governo nega di volere: una backdoor che dà accesso a tutti gli iPhone, non a un solo apparecchio.
Si tratta di una porta attraverso la quale domani potrebbero passare altri poteri federali per altre indagini e che, se rubata dagli hacker (evento non improbabile visto quello che sta accadendo in questo campo), rischia di far cadere nelle mani di chiunque le informazioni più personali (conversazioni, foto, contatti, dati sanitari, finanziari, fiscali) che ognuno di noi archivia nel suo smartphone.
Il punto è che nel 2014, dopo il caso Snowden, Apple ha introdotto un sistema di criptaggio che nemmeno lei può infrangere. Per superare questo blocco ora il magistrato chiede all’azienda di produrre un software parallelo per sabotare i meccanismi di sicurezza escogitati dagli stessi ingegneri della Apple, a partire dall’autodistruzione della memoria in caso di attacco ai codici d’accesso: «È come se nel mondo fisico mi chiedessero di produrre l’equivalente di una chiave in grado di aprire centinaia di milioni di serrature» dice Tim Cook.
Una questione delicata destinata a dividere l’opinione pubblica (per metà con Apple e per metà col governo, secondo i sondaggi fin qui eseguiti) e la politica: il giudice ha dovuto riesumare una legge di 225 anni fa perché il Congresso su questa materia non riesce a legiferare. Basta uno sguardo alle discussioni di questi giorni per capire il perché: ad un recente dibattito democratico Hillary Clinton e Bernie Sanders hanno dato risposte vaghe a una domanda precisa su questo nodo. E ieri, sull’altro fronte, mentre Donald Trump si è detto per una volta d’accordo col governo e ha condannato la ribellione di Apple, dall’American Enterprise Institute, il think tank ideologico della destra, è arrivato un attestato di solidarietà all’impostazione «libertaria» di Tim Cook.
Massimo Gaggi



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