Il Risiko cinese che fa paura

Il Risiko cinese che fa paura

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Visti nell’immagine satellitare datata 14 febbraio sembrano container adagiati sulla spiaggia. Secondo gli analisti americani però si tratta di due batterie da otto lanciamissili terra-aria posizionati dall’esercito di Pechino a Woody Island, che fa parte delle Paracel, nel Mar Cinese meridionale. Quei missili antiaerei identificati come HQ-9 Hongqi (Bandiera rossa, in mandarino), raggio d’azione di 200 chilometri, in un’altra foto ripresa dai satelliti commerciali di ImageSat il 3 febbraio ancora non c’erano. Sono quindi il più recente atto di militarizzazione cinese in un’area oceanica di circa 3,5 milioni di chilometri quadrati attraversata da un terzo del traffico marittimo di merci del mondo.

I sette atolli
All’interno di questo quadrante sono disseminati gli arcipelaghi delle Paracel e delle Spratly, nei cui fondali ci sarebbero giacimenti di petrolio e gas. Pechino reclama come storicamente suo il 90 per cento del Mar Cinese meridionale e usa come avamposti per la penetrazione atolli e isolotti contesi da una mezza dozzina di altri Paesi, dal Vietnam alle Filippine, Taiwan, Indonesia, Malesia e Brunei. Gli Stati Uniti rivendicano il diritto di libera navigazione e sorvolo. Alle Spratly il genio cinese negli ultimi due anni ha riempito di cemento sette atolli semisommersi trasformandoli in isole artificiali che sta fortificando.
I missili Bandiera rossa comparsi a Woody (Yongxing in mandarino) secondo il segretario di Stato Usa John Kerry sono un tradimento della parola data a settembre dal presidente cinese Xi Jinping a Washington di non militarizzare le isole contese. A Pechino la vedono in tutta un’altra maniera. Il ministro degli Esteri Wang Yi ha invitato i corrispondenti dei giornali stranieri a non fare da megafono ai motivi nascosti degli americani: «Fate attenzione invece ai fari nautici e alle stazioni meteo che la Cina ha costruito sulle isole», ha chiesto. Wang non ha voluto confermare né smentire l’installazione dei missili, ma ha detto che siccome le isole sono territorio nazionale, difenderle è un diritto cinese. L’agenzia Xinhua ha definito gli HQ-9 l’equivalente dei Patriot americani.
I rischi per l’economia
La stampa di Pechino, quando vuole mandare un messaggio semiufficiale, cita «esperti». E ieri questi esperti hanno previsto che se il Pentagono insisterà nella sua linea di far avvicinare navi da guerra alle isole Xisha (le Paracel) e Nansha (le Spratly), sarà necessario schierare anche missili antinave. In poche parole, c’è il rischio di un’escalation. Nessuno al momento pensa che l’Esercito popolare di liberazione sia tanto folle da lanciare un missile, ma basterebbe per esempio «illuminare» con il radar delle due batterie di Woody Island un apparecchio Usa per accendere una crisi che farebbe come minimo sprofondare le Borse globalizzate. Per Washington è aperto un dilemma strategico: rispondere all’aggressività con azioni dimostrative o lentamente ma inesorabilmente osservare lo sgretolamento dell’ordine instaurato nella regione Asia-Pacifico?
Le mosse del Pentagono
Per il momento il Pentagono cerca di vigilare, insieme agli alleati. Tutti preoccupati. Il vice ammiraglio Alexander Lopez, responsabile delle forze armate filippine, non ha abbassato i toni: «Se hanno schierato dispositivi così sofisticati è perché pensano di poterli usare». Difficile però trovare risposte comuni. Al recente vertice in California tra Obama e dieci leader dei Paesi del Sudest asiatico sono emersi molti distinguo. Al punto che nel comunicato finale, pur ribadendo la necessità di mantenere aperta la navigazione, non è stata citata esplicitamente la Cina. E questo mentre Pechino faceva le sue nuove mosse. Gli Stati della regione hanno visioni diverse. Filippine e Vietnam sono favorevoli a un approccio muscoloso, altri preferiscono cautela. Anche perché, oltre a rafforzare i propri apparati, le opzioni non sono molte. Gli Stati Uniti continueranno a mostrare bandiera facendo sfilare nella zona aerei e navi. Ma — come ha osservato il senatore John McCain — è possibile che debbano prendere dei rischi fino a oggi esclusi. Serviranno anche azioni discrete, per tenere d’occhio quello che combinano i cinesi. Magari interventi dei sottomarini della classe Sea Wolf, studiati per operazioni sofisticate. Il sito War is Boring ha rivelato che il Carter ha ricevuto una citazione al merito presidenziale per la misteriosa «Mission 7». È partito il 20 gennaio del 2013 da Bangor, Stato di Washington, ed è riapparso due mesi dopo nella baia di Pearl Harbor dove è stato sottoposto a lavori di manutenzione. Dove è stato in quel periodo? Ha puntato verso l’Artico? O, invece, si è «dedicato» ai segreti cinesi? Ovviamente nessuno risponde, ma non sarebbe una sorpresa se l’unità avesse agito a Oriente. Un settore dove spesso la Navy ha impegnato i suoi mezzi in attività di intelligence.
La «pazienza» di Kissinger
C’è un altro grande fattore destabilizzante nella regione. La Corea del Nord con il suo programma nucleare. Il 6 gennaio i tecnici di Kim Jong-un hanno compiuto un test di bomba all’idrogeno; il 7 febbraio hanno lanciato un satellite con un razzo che secondo gli analisti è una prova mascherata di missile intercontinentale per minacciare il territorio statunitense. E Washington preme perché Pechino aderisca a nuove sanzioni commerciali. Siccome i cinesi non vogliono rischiare il crollo del regime nordcoreano alleato, anche se incontrollabile e pericoloso, americani e sudcoreani stanno preparando lo schieramento dello scudo antimissile Thaad (Terminal High Altitude Area Defense). Una mossa sgradita ai cinesi, che la vedono diretta anche a indebolire il loro deterrente missilistico. Ed ecco che ora Pechino parla apertamente della necessità di imporre sanzioni che «mordano» davvero Pyongyang.
È in corso una grande partita per la supremazia tra Cina e Usa. Henry Kissinger diceva che mentre la tradizione occidentale esalta gli scontri decisivi, quella cinese privilegia «le tortuosità, il paziente e graduale consolidamento delle posizioni di relativo vantaggio». Secondo Kissinger il concetto è riassunto nel «weiqi», un gioco da tavolo strategico con 180 pezzi per parte. Nel «weiqi» si perseguono diversi obiettivi contemporaneamente e vince chi alla fine controlla una zona di territorio più grande di quella dell’avversario. Ma non serve lo scacco matto come negli scacchi, basta un vantaggio minimo, che un occhio non esperto, non cinese, non saprebbe cogliere.


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