Se la fonte del giudice è una serie tv

Se la fonte del giudice è una serie tv

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Che l’amministrazione americana abbia coperto o autorizzato il ricorso alla tortura dopo l’11 settembre 2001 non è propriamente una scoperta, dopo la pubblicazione delle foto di Abu Ghraib, le testimonianze dei detenuti di Guantánamo o le rivelazioni sulle prigioni «delocalizzate» della Cia in Europa. Il presidente Bush aveva addirittura esercitato il suo potere di veto per bloccare il testo di legge votato dal Congresso che vietava la pratica del waterboarding, un annegamento simulato che il «manuale pratico dell’esercito degli Stati Uniti» assimila a un atto di tortura. Un veto giudicato severamente da Ted Kennedy, che lo aveva definito «uno degli atti più vergognosi della sua presidenza»… Ma una decisione del genere sarebbe stata impossibile se non fosse stata inserita in un quadro segnato da un profondo cambiamento delle norme e dei valori etici accettati dall’opinione pubblica americana.
Lo attestano, per esempio, le innumerevoli scene di tortura inserite in serie televisive come 24, Lost, Alias o Law and Order. Dal 2002 al 2005, furono trasmesse, negli orari di massimo ascolto, qualcosa come 624 scene di tortura, contro appena 102 dal 1996 al 2001. «Jack Bauer, il protagonista di 24, non è un torturatore», dichiara al New Yorker Joel Surnow, il creatore della serie, «è solo un cittadino che quando serve si sa dimostrare convincente. Paga carissimo quello che fa, tutto quello che fa lo fa per salvare milioni di vite umane. È l’incarnazione stessa della giustizia. Una macchina per uccidere che sotto sotto tutti sogniamo, perché colpisce soltanto la feccia».
Secondo l’associazione americana per la difesa dei diritti umani Human Rights First, 24, oltre a banalizzare la tortura agli occhi dei telespettatori, ha anche ispirato i soldati in Iraq. «Abbiamo un fascicolo di prove che dimostrano che i giovani soldati imitano le tecniche di interrogatorio che hanno visto in televisione», ammonisce David Danzig, che dirige la campagna Primetime Torture.
Perfino gli esperti di intelligence si sono preoccupati. A metà novembre del 2006, l’accademia militare di West Point organizzò un incontro con gli sceneggiatori di 24. Ecco cosa scrisse il Los Angeles Times: «I militari hanno espresso l’auspicio che le scene di tortura siano più autentiche. Il che non significa più sanguinose o più feroci. Al contrario, vogliono che siano più realistiche, meno sbrigative ».
Ma una cosa del genere avrebbe significato rinunciare all’elemento che faceva il successo della serie, e che era legato non solo alla personalità dell’eroe e agli eventi raccontati, ma anche alla suspense creata dal famoso ticking bomb scenario, che offriva alla serie la sua tensione narrativa, la sua efficacia, anche se si fondava su una concatenazione narrativa che Hitchcock, nelle sue conversazioni con François Truffaut, trovava già superata.
Ogni stagione di 24 si componeva di ventiquattro episodi della durata di un’ora, che coprivano «in tempo reale» gli avvenimenti di una giornata. La durata degli spot pubblicitari era inclusa nella scansione temporale dell’episodio, materializzata dalla presenza sullo schermo di un orologio digitale che realizzava una sincronia perfetta fra il tempo dell’azione e quello della percezione. Gli avvenimenti erano vissuti e rappresentati al tempo stesso. L’azione non si coniugava più all’imperfetto della finzione, ma in un tempo virtuale: quello dell’urgenza normalizzata, dello stato di emergenza permanente. La minaccia perpetua di un attentato terroristico autorizzava una sospensione del giudizio morale e consentiva di instaurare una nuova legge etica che spingeva tutti a «interrogare » tutti – il padre il figlio, il marito la moglie, la sorella il fratello – in nome della sicurezza di tutti. Si instaurava a quel punto un nuovo regime del politico che non era più fondato su convinzioni condivise, ma sulla generalizzazione del sospetto. Mancava solo la Corte suprema degli Stati Uniti per legittimare una simile deriva. E arrivò nel 2007. Nel corso di un convegno di giuristi a Ottawa, nel giugno di quell’anno, il giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, Antonin Scalia, morto nei giorni scorsi, giustificò l’uso della tortura basandosi non su testi giuridici o sul diritto internazionale, ma sull’esempio di Jack Bauer. L’università americana di Georgetown proponeva già un corso che studiava le problematiche legali sollevate dalla serie 24. Secondo la rivista Slate, le lezioni si svolgevano il martedì sera, in modo che gli studenti avessero ancora in mente l’episodio trasmesso la sera prima su Fox News… Era un chiaro segnale della deriva dell’amministrazione americana sotto la presidenza di Bush figlio, che non trovando legittimazione né fondamento nel diritto internazionale, lo ricercava in una serie televisiva che essa stessa aveva ispirato, instaurando una sorta di autolegittimazione attraverso la finzione narrativa e creando una giurisprudenza basata non più sull’anteriorità delle decisioni giuridiche, ma sulla performatività degli atti immaginari, una giurisprudenza «Jack Bauer».
Evocando la seconda stagione della serie, dove si vede l’eroe che salva la California da un attacco nucleare grazie a informazioni ottenute nel corso di «interrogatori energici», il giudice Scalia non si faceva scrupoli ad affermare: «Jack Bauer ha salvato Los Angeles, ha salvato centinaia di migliaia di vite umane. Vogliamo condannare Jack Bauer? Dire che il diritto penale è contro di lui? Una giuria condannerebbe Jack Bauer?».
Traduzione di Fabio Galimberti
* L’AUTORE
Christian Salmon, scrittore e ricercatore francese, è autore, fra gli altri libri, di Storytelling. La fabbrica delle storie e di La politica nell’era dello storytelling ( entrambi tradotti in Italia da Fazi)


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