Obama, l’ultimo rilancio per chiudere Guantánamo «È contro i nostri valori»

Obama, l’ultimo rilancio per chiudere Guantánamo «È contro i nostri valori»

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WASHINGTON Da mesi i funzionari americani sono alla ricerca di prigioni alternative a Guantánamo. Ne hanno considerate almeno 13, da una costa all’altra. Tra queste Supermax, detta la tomba. Incastonata vicino alle Montagne Rocciose, dove sono rinchiusi killer, terroristi, criminali comuni, narcos. Qui potrebbe finirci anche El Chapo. Un sarcofago in cemento dove gli «ospiti» sono tenuti 23 ore in isolamento e l’ora che gli resta la passano in una gabbia: un luogo che forse è peggio del «campo» nell’enclave cubana. Ma che può servire al progetto di Barack Obama per scrivere la parola fine su un «capitolo di storia» negativa, una pagina nera.
Il presidente, parlando dalla Casa Bianca, ha rilanciato il suo piano per chiudere Guantánamo e lo ha trasmesso a un Congresso bellicoso e riottoso nei confronti persino della sola idea. La vecchia promessa elettorale è diventata con il tempo un fardello sulle spalle del numero uno, un impegno non rispettato e per questo rinfacciato dai tanti delusi. Negli Stati Uniti e all’estero. Obama, sotto le telecamere, ha fatto la sua arringa in difesa del progetto, un discorso per punti, pieno di cifre e riflessioni. Il centro sull’isola deve essere «terminato» per una serie di buoni motivi. Primo: «È controproducente» e fa il gioco dei terroristi. Secondo: «È costoso, 450 milioni di dollari soltanto nell’ultimo anno». Terzo: «È contrario ai nostri valori». Quarto: «Mina l’immagine dell’America». Quinto: i tribunali statunitensi sono «forti» e capaci di giudicare i prigionieri. Sesto: «Non è la proposta di un liberal di sinistra, ma un approccio condiviso. Anche George W. Bush voleva abolirlo». Settimo: «Un’eredità che non voglio lasciare al mio successore».
Insieme al perché, la Casa Bianca ha spiegato il come. Dei 91 militanti rimasti 35 saranno trasferiti in Paesi terzi, 10 sono al centro di procedimenti delle corti militari, il resto dovranno essere in maggioranza portati nei penitenziari sul territorio americano. Numeri che potrebbero cambiare in quanto l’Amministrazione e il Pentagono stanno valutando la posizione di alcuni qaedisti: oggi sono in cella, domani possono essere liberati se sarà accertato che non rappresentano più un problema. Quanto alla spesa dovrebbe oscillare tra i 290 e i 475 milioni di dollari.
Il meccanismo pensato è quello seguito in questi sette anni di presidenza, con un progressivo invio dei prigionieri in patria oppure in Stati disposti ad accettarli in base ad accordi diretti.
Sotto Bush l’installazione di Gitmo aveva messo dietro le sbarre 800 individui, spesso sottoposti a pressioni psicologiche e fisiche. Alcuni vi erano arrivati da «black sites», luoghi segreti dove erano stati a lungo torturati. Trattamenti riservati a personaggi chiave di Al Qaeda, come Khaled Sheikh Mohammed, presunta mente dell’11 settembre, o Abu Zubeyda, operativo del network. Sotto Bush la linea dei rimpatri è continuata: 147 i casi. Sono finiti in Albania, nell’Est europeo, in Uruguay, in Ghana, nel Golfo Persico. A volte l’operazione è stata agile, altre più complessa. I detenuti non erano ritenuti più pericolosi, ma non potevano essere consegnati alle autorità dei loro Paesi nel timore che subissero nuovi trattamenti brutali. In gennaio è stato spedito in Bosnia Tariq al Sawah, egiziano, mago degli esplosivi. Quando era dentro il reticolato aveva un comportamento ostile, duro, ma al tempo stesso aveva deciso di collaborare fornendo informazioni primarie su ordigni sofisticati studiati per conto di Osama: dalle scarpe bombe a mine navali. Molti si sono chiesti se gli ex, una volta liberi, non siano tornati a imbracciare il kalashnikov. Le indagini hanno fornito indicazioni interessanti: oltre 100 lo hanno fatto con certezza e una settantina sono rimasti in un’area grigia, contigua alla violenza.
Proprio la pericolosità è uno degli argomenti usati dai contrari. Subito dopo il discorso del presidente, diversi esponenti repubblicani sono partiti all’attacco usando la questione anche nei comizi elettorali. Siamo in piena campagna. Marco Rubio non ha perso tempo a gridare il suo no, aggiungendo: «Se sarò presidente li riporterò nel campo». Rappresentanti degli Stati dove sorgono i penitenziari considerati dal Pentagono hanno espresso dissenso aperto. Un gruppo di congressisti ha già presentato un progetto di legge che pone il veto.
Ostacoli che si sommano a quelli più pratici. Un buon numero di coloro che devono essere espulsi sono originari dello Yemen, regione oggi sconvolta dalla guerra civile. Può essere la destinazione finale? Poi c’è la questione dei processi: un giudice tradizionale ammetterà prove che forse sono state ottenute sottoponendo i prigionieri ad abusi? Obama e i suoi uomini hanno ancora molto lavoro e il tempo è poco.
Guido Olimpio


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