Con voucher e sommerso vola l’economia “in nero”

Precariato e sommerso, le zavorre di cui l’Italia fatica a liberarsi. La nuova frontiera del precariato, secondo la definizione del presidente Inps Tito Boeri, vale dieci euro lordi all’ora, sette euro e mezzo netti, e si chiama voucher.
Negli anni della grande crisi – dal 2008 al 2015 – ne sono stati venduti 278 milioni, per un valore di 2,8 miliardi. Ma solo nell’ultimo anno, dopo che il governo Renzi ha elevato il tetto annuo di retribuzioni con i ticket da 5 a 7 mila euro, sono letteralmente esplosi: 115 milioni di tagliandi venduti, 106 milioni quelli riscossi da un milione e 700 mila lavoratori (25 mila i voucheristi nel 2008) per 800 milioni di euro totali, 471 euro di reddito medio annuo. Cifre da capogiro. Il governo le giustifica come emersione dal nero. Ma il dubbio di Boeri, condiviso dai sindacati, è che non sia così. D’altro canto, in un Paese in cui il sommerso vale 211 miliardi (e spinge la pressione fiscale reale al 50%, sette punti più su di quella ufficiale), stima la Cgia di Mestre, non c’è troppo da stupirsi.
Il primo studio in materia, messo a punto dalla Uil-Servizi del Lavoro, è spiazzante. Soprattutto perché sbaraglia vecchie e consolidate tesi. Il voucher non è più lo strumento per pagare i lavoretti estivi degli studenti o dei pensionati, come in origine. Al contrario, somiglia sempre più a una regolare e parziale forma di retribuzione, tra l’altro esentasse, priva di diritti (maternità, malattia, ferie) e con contributi previdenziali talmente minimali da essere inutili. Nell’anno del Jobs Act questo il sospetto – i datori hanno scelto i buoni per stipendiare lavoro a termine, a fronte di un contratto a tempo determinato reso molto costoso (per non fare concorrenza alle tutele crescenti) e di un apprendistato più conveniente, ma strozzato da burocrazie senza fine.
Ecco che il voucher esplode dove non te lo aspetti. Più al Nord che al Sud (benché la crescita in Sicilia sia stata stellare), per l’80% tra gli under 49 (e il 40% under 29), praticamente solo tra lavoratori comunitari (al 92%), nel terziario per il 50% e solo il 15% nei settori classici di utilizzo dei ticket, come giardinaggio, lavoro domestico, attività sportive. Altro che badanti e raccoglitori di mele. Qui siamo di fronte a camerieri, baristi, commessi. E come spiegare poi il gap tra voucher acquistati dai datori e riscossi dai lavoratori? Nel 2015 lo sbilancio è di nove milioni di ticket tenuti nel cassetto, in caso passasse qualche controllo. Che però non passa. E via col nero, azzarda la Uil.
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