Inflessibili d’Europa

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I fondi della discordia, cioè la quota italiana ai tre miliardi da consegnare nelle mani di Erdogan, non sono ancora stati sbloccati. Però lo saranno presto. Impossibile fare altrimenti: su quel fronte la cancelliera Angela Merkel, nell’incontro con Matteo Renzi, è stata teutonica, tanto rigida quanto inamovibile: tirare troppo la corda renderebbe quasi inevitabile limitare Schengen ad alcuni Paesi, tra i quali non sarebbe compresa l’Italia, e il disastro sarebbe incommensurabile. Dunque dopo la conferma dell’impegno europeo a non computare i milioni del fondo per la Turchia nel patto di stabilità, Renzi dovrà sbloccarli.

La partita vera, però, inizia solo ora e riguarda l’estensione della norma fatta valere in questa occasione per tutti i fondi spesi per l’immigrazione. Dopo le mazzate fatte piovere lunedì dalla Commissione europea, ieri ne sono arrivate altre, anche più dure. Manfred Weber, capogruppo del Ppe, ha detto chiaramente che su quel fronte l’Italia non può ottenere nulla. «La Commissione – va giù piatto – ha dato negli ultimi anni massima flessibilità. Ma anche i commissari socialisti, come Moscovici, constatano che non ci sono margini per maggiore flessibilità. Juncker ha inviato ieri una lettera a Renzi: spero che sia arrivata a destinazione».

Annunciata da Weber, arriva a ruota la dichiarazione definitiva di Moscovici, commissario all’Economia: «L’Italia è già il Paese che beneficia di più flessibilità rispetto al resto della Ue. Non si possono aprire senza sosta nuove discussioni sulla flessibilità». Poi però lo stesso Moscovici addolcisce la pillola: «Non ho mai pensato che con uno Stato importante come l’Italia lo scontro sia un buon metodo. Dobbiamo trovare un compromesso e la Commissione è pronta a farlo».
Sono parole calibrate quelle di Weber. Il suo è un messaggio che preannuncia il no di Bruxelles alla concessione della flessibilità per i tre miliardi e mezzo destinati all’immigrazione e avverte di non scommettere su quella carta. Ma i toni senza dubbio diversi di Moscovici dimostrano che il premier italiano ha spazio per giocarsi la partita sul fronte del «compromesso».

La posta in gioco materiale è altissima. Senza la flessibilità su quella voce, l’Italia dovrebbe probabilmente ricorrere a una manovra correttiva a ridosso delle elezioni comunali, e soprattutto si aprirebbero le porte per una procedura d’infrazione sul deficit che comporterebbe l’obbligo per l’Italia di sottoporre le proprie spese al vaglio di Bruxelles. Esattamente quello che Renzi vuole evitare a ogni costo e che ostacolerebbe più di come non si può la strategia che ha in mente in vista delle prossime elezioni politiche, basata tutta su un taglio delle tasse al momento opportuno.
Sullo sfondo, ma in maniera molto evidente, si staglia poi una sfida puramente politica. Matteo Renzi si sta ritagliando un ruolo specifico: quello dell’alleato fedele ma non supino della Germania, quello della voce critica da affiancare all’onnipotente cancelleria di Berlino e all’alleanza formalmente paritaria e in realtà subordinata di Parigi. Ma la Commissione non ha alcuna intenzione di permettere a un Paese fortemente critico con le politiche sin qui seguite da Bruxelles di avere tanta voce in capitolo: ne deriva la necessità di rimettere a posto il “discolo” subito, prima che acquisti troppo peso.

Alla partita reale, quella che si gioca tra Roma e Bruxelles, se ne aggiunge per il premier italiano un’altra, non meno importante. Per frenare l’avanzata delle forze “populiste”, cioè dell’M5S e di una destra a guida leghista, alle prossime comunali deve imporsi agli occhi degli elettori come il vero campione di una resistenza alle «perversioni burocratiche» e al rigorismo della Commissione capace sì di non degenerare in anti-europeismo, però fermissima.

Per entrambi i motivi, per l’importanza effettiva della posta e per l’occhio sempre puntato sulle urne della prossima primavera, ma anche per una questione di carattere, Renzi non può fare quel che tra le righe gli chiede Weber: rassegnarsi e abbassare i toni. Infatti non li abbassa di un solo decibel. Dal Ghana, ieri, è tornato a martellare: «Noi siamo l’Italia. Ogni anno mettiamo sul piatto di Bruxelles 20 miliardi, e ce ne tornano indietro solo 11. Il tempo delle lezioncine è finito». E’ un gioco al rialzo il cui esito, alla fine, sarà determinato dalla Merkel e da quanto la cancelliera riterrà utile e opportuno salvaguardare il fronte con l’alleato “fedele e critico” Renzi, per ridurre il rischio che l’Unione esploda. D’altra parte lo stesso Juncker non è certo in una posizione di forza e Renzi lo sa, per questo continua a attaccarlo anche attraverso la delegazione dem in Europa, alla quale ieri ha ordinato con un sms di evocare la crisi della Commissione.



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