Jobs Act, una ripresina pavida e anemica
La dinamica dell’occupazione, secondo l’ultima rilevazione sulle forze di lavoro Istat, chiude pavidamente il 2015. Nell’arco dei dodici mesi il numero di occupati è cresciuto complessivamente di un esiguo 109 mila unità.
Da un lato, la ripresina dell’occupazione pare restituire al lavoro italiano il suo carattere duale in termini di genere: a beneficiarne sono infatti solo gli uomini (+132 mila) contro una riduzione del numero di lavoratrici di -23 mila unità.
Dall’altro lato, i dati dell’Istituto di Statistica rivelano che la coorte, tra i 25 e i 49 anni, che dovrebbe essere protagonista del mercato del lavoro continua a rimanere esclusa: la perdita di occupati per questa classe di età è pari a 121,000 unità, accompagnata da un aumento netto degli inattivi (+71 mila). Sono invece 189,000 gli occupati in più over 50 e 40 mila quelli under 25. Se ancora, il tasso di disoccupazione si è ridotto nell’anno, attestandosi a dicembre all’11.4%, il numero di disoccupati (2,898,885) non pare dare tregua all’ottimismo del governo. Chissà se il presidente della Bce, Mario Draghi, nel chiedere «riforme strutturali efficaci per sostenere la ripresa ciclica» avesse o meno in mente la scarsa efficacia del tanto acclamato JobsAct.
Dalla scomposizione per tipologia di contratto emerge che nel 2015 ci sono 135 mila occupati in più a tempo indeterminato e 113 mila a termine, contro un calo di 138 mila occupati indipendenti. Guardando la dinamica a partire da marzo – entrata in vigore del Jobs Act – l’aumento dei nuovi occupati a termine supera quello relativo ai furono lavoratori a tempo indeterminato (+139 vs +102 mila).
Ad ogni modo, in termini assoluti il mercato del lavoro in Italia pare arrancare e non potrebbe essere altrimenti vista la dinamica di investimenti (ma anche dei consumi delle famiglie) e più in generale quella del Pil.
Inoltre, osservando mese per mese il modesto aumento dell’occupazione a tempo indeterminato non ci si può sottrarre ad alcune considerazioni di fondo. Il numero di occupati a tempo indeterminato aumenta principalmente durante gli estremi: a inizio anno e durante gli ultimi tre mesi. Una fotografia che infrange quella visione idealizzata, troppo spesso elevata a certezza, che dipinge le imprese come attori benevolenti.
Come spiegano i dati amministrativi dell’Inps, l’aumento degli occupati a tempo indeterminato non rappresentano nuova occupazione, ma una forma di stabilizzazione – solo formale se avvenuta per mezzo di contratti a tutele crescenti. Costerà poco alle imprese disfarsi di questi lavoratori, che di fatto da disoccupati non avranno nessun diritto in più, se non paradossalmente di divenire disoccupati con maggiore facilità.
Una volta chiara la dinamica prevedibilmente insoddisfacente, nel metodo e nel merito dell’operazione riformatrice, ci si potrebbe spingere a ipotesi ancor più maliziose: quante imprese hanno nel corso dell’anno trasformato i propri dipendenti a tempo indeterminato in tempo determinato per almeno sei mesi, così da poterli riassumere con contratti a tutele crescenti entro dicembre, beneficiando degli ingenti sgravi contributivi? In quali settori operano?
Essere in grado di rispondere a tali quesiti aiuterebbe a comprendere le effettive dinamiche del mercato del lavoro, il modo in cui le imprese sfruttano a loro favore lo già sbilanciato rapporto di forza interno al mondo del lavoro. Gli sgravi sul costo del lavoro appaiono infatti l’unica motivazione alle base delle assunzioni a tempo indeterminato, o stabilmente precarie, soprattutto dal momento che queste non sono accompagnate da nessuno sforzo da parte delle imprese in termini produttivi. Gli investimenti in capitale fisso continuano a diminuire e di un rinnovato interesse per lo sviluppo di processi innovativi nessun segno.
La stessa indifferenza pare caratterizzare il governo, che aveva puntato tutto sugli incentivi per le imprese e sulla “retorica dell’art.18”, lo stesso che ha delegato la politica industriale al mantra degli investimenti esteri senza curarsi delle politiche attive né del tessuto industriale italiano – fatti salvi pochi marchi amici, mentre persino Eni decide di dismettere il ramo chimico e lo stabilimento di Gela e come se non bastasse si adopera per la cessione di Saipem e di Gas & Power.
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