“Nel mio scatto la speranza è quel neonato”

“Nel mio scatto la speranza è quel neonato”

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L’esodo biblico sta sconvolgendo il pianeta, figuriamoci l’immaginario.

Nel medagliere del World Press Photo Award di quest’anno l’epica visuale della grande migrazione travolge categorie e stili. Vince con un’immagine sporca, rumorosa, emotiva, «leggermente fuori fuoco», infatti molti già dicono: ha vinto Robert Capa.

Forse è vero: come per il padre dei fotoreporter la mattina del D-Day, così per l’australiano Warren Richardson non c’erano alternative. Notte del 28 agosto 2015, Roszke, frontiera fra Serbia e Ungheria. Una barriera di filo spinato, quello più feroce, con le lamette, pensa di contenere un’onda di ventimila umani in cerca di vita. Ma i profughi siriani, afgani, bengalesi non possono tornare indietro. Per cinque giorni Richardson assiste «a un gioco del gatto col topo». E quando aprono un varco, «fanno passare per prima la cosa più preziosa che hanno portato con sé: i loro figli». Sono le tre del mattino quando scatta questa immagine: «Impossibile usare il flash, quando la polizia ungherese non aspetta altro che prenderli sul fatto. Ho usato l’unica luce che avevo a disposizione: quella della luna». Tempi alti, sensibilità al massimo. Ma con la tecnologia di oggi, per fortuna, può uscirne una fotografia, una così, unta e macchiata di realtà. Ora ci si accapiglierà, accade sempre, sulla scelta, sullo stile, sull’estetica del premio. «Io ho pensato solo: se fosse mio figlio?», dice Richardson, «e vedo in questa immagine almeno un po’ di speranza per quel bambino».

Certo, ci si poteva aspettare che quella dei profughi sarebbe stata «la tragedia dell’anno» per l’oscar olandese del fotogiornalismo. Tuttavia, mai come quest’anno sarebbe stato difficile, forse snob, ignorarla. Infatti il dramma dei popoli in fuga buca tutte le categorie, rastrella altri premi e sottopremi, detto in molti dei linguaggi che la fotografia conosce: in questa pagina ne abbiamo raccolti gli esempi. La grande evasione dalla sofferenza assedia l’Occidente, e lo sguardo del fotogiornalismo è molto occidentale. Ammettiamo dunque che questa è la visione delle nostre paure, l’immaginario della nostra angoscia globale. E speriamo che, come nelle foto dall’inferno della Siria, che pure vedete qui, altri fotografi continuino anche a mostrarci anche cosa accade là dove i più deboli fra i deboli sono costretti a restare, al prezzo della vita, lontani dai nostri occhi.



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