I depistaggi di Abdel Ghaffar l’ex uomo forte dei servizi che Al Sisi ha voluto al governo
Chi sta lavorando al sistematico occultamento della verità sulla morte di Giulio Regeni? Quale mano, quale apparato sta intossicando da un mese a questa parte ogni potenziale traccia, indizio, testimonianza, evidenza documentale in grado di mettere l’indagine su un giusto binario? Le smentite con cui i ministeri di Giustizia e Interno egiziani aggrediscono l’ultimo leak sugli esiti dell’autopsia effettuata al Cairo sul corpo di Giulio Regeni, nel provare ad annichilire quanto lascia filtrare e accredita la procura di Giza, documentano in modo nitido quale infernale scontro di apparati si stia consumando da quattro settimane all’interno del Regime. Soprattutto, ripropongono, inconfondibili, le stimmate di Magdi Abdel Ghaffar. Il ministro dell’Interno. L’uomo che, in questa vicenda, sta giocando un esiziale ruolo di depistaggio, manipolazione, dissimulazione. Che ha trasformato un’indagine per individuare i responsabili di un omicidio in un’inchiesta sulla vittima di quell’omicidio. Sul suo lavoro di ricercatore, sul contesto accademico in cui veniva svolto (l’American University del Cairo), sulla sua rete di amicizie, frequentazioni, tali da poter accreditare un calunnioso movente comune («delitto a sfondo omosessuale», ovvero «vendetta per fatti di droga»).
Del resto, che Magdi Abdel Ghaffar, della partita cominciata il pomeriggio del 3 febbraio con il ritrovamento del cadavere di Regeni, sia non tanto una variabile quanto il key player è nella sequenza delle mosse che, dal primo istante, devono soffocare sul nascere il protagonismo “inatteso” di Ahmed Nagi, il procuratore capo di Giza. Il magistrato che, per primo, parla di «evidenti torture», di «morte lenta» e che quindi denuncia la «scomparsa del cellulare» di Giulio, contribuendo ad accreditare la cornice che rende prima plausibile e quindi evidente il movente politico dell’omicidio. È il ministro Magdi Abdel Ghaffar che, nei giorni in cui Giulio è ancora ufficialmente uno “scomparso”, si rifiuta di incontrare il nostro ambasciatore al Cairo. È lui che confeziona la prima, oltraggiosa, versione della «morte per incidente stradale ». È lui che sistematicamente indirizza e orienta le domande che la polizia giudiziaria egiziana pone a oltre venti testimoni sulle inclinazioni sessuali di Giulio, sul tipo di ricerca che conduceva. È lui che lascia filtrare ai quotidiani del Cairo la notizia che, «sfortunatamente», le immagini registrate dalle telecamere a circuito chiuso nella zona di Dokki dove Giulio è stato sequestrato la sera del 25 gennaio «non sono più disponibili» perché automaticamente cancellate dalla memoria degli apparati. Salvo omettere di chiarire le ragioni per le quali nell’acquisizione di quelle immagini si siano persi almeno dieci giorni. Ed è ancora lui, il ministro, che ha piazzato nella procura di Giza il generale Khaled Shalaby, capo della polizia giudiziaria, ufficiale con una condanna per tortura alle spalle che deve accompagnare l’indagine ad approdi innocui per il Regime.
C’è evidentemente del metodo e qualcosa di più di un indizio nelle mosse del ministro Ghaffar. Ed entrambi hanno che fare con la sua storia, con gli apparati di cui è figlio, e – singolare coincidenza – con un conto aperto con la American University del Cairo. Scelto da Al Sisi nel marzo del 2015 come ministro dell’Interno, Ghaffar, 63 anni, ha infatti trascorso trent’anni di vita e carriera nella Sicurezza dello Stato, il Servizio segreto interno del Paese, di cui, tra il 1977 e il 2012 scala l’intera catena gerarchica, fino a diventarne direttore. Nel Servizio, Ghaffar è uomo di tutte le stagioni e servitore di tutti i padroni. Con Mubarak è direttore della divisione antiterrorismo del Cairo e, nel 2011, quando Mubarak viene rovesciato dalla rivolta di piazza Tahrir, diventa vicedirettore di un Servizio cui la rivoluzione ha nel frattempo imposto un cambio di nome (da Sicurezza dello Stato ad Agenzia per la sicurezza nazionale), senza per questo riuscire a modificarne i metodi. Ghaffar è l’uomo della “continuità”. E, infatti, del Servizio diventa direttore nel dicembre del 2011.
In pubblico, l’uomo racconta di un “nuovo Servizio” che avrebbe dismesso i suoi abusi. Di fatto, Ghaffar è il figlio legittimo di quella stessa cultura paranoica che condannerà a morte Regeni. E la prova – singolarmente – è nell’obiettivo che, nel 2012, da direttore del Servizio, indica al Paese come “nemico interno”. L’American University del Cairo. L’università cui Giulio Regeni si appoggerà come ricercatore per il suo dottorato. L’8 aprile di quel 2012, intervistato dal giornale kuwaitiano Al Jareeda, Ghaffar denuncia infatti l’università americana come «luogo impegnato in attività sospette, potenzialmente in grado di minacciare la sicurezza e la stabilità dell’Egitto». Di più, la indica come la «mandante di manifestazioni violente che si sono tenute al Cairo» e «sostenitrice morale, finanziaria e intellettuale dell’agenda di Paesi stranieri». Cosa è cambiato da allora nelle valutazioni di Ghaffar? È lui l’uomo che avrà l’ultima parola nell’indicare gli assassini di un ricercatore dell’American University?
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