Damasco Nelle vie dove l’Is sfida la tregua ecco l’ultimo fronte della guerra

Damasco Nelle vie dove l’Is sfida la tregua ecco l’ultimo fronte della guerra

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DAMASCO SARANNO pure giorni di tregua. Ma qui, a Sayyida Zainab, periferia sciita alle porte di Damasco, in mezzo a una povertà senza paraventi moltiplicata dall’arrivo di centinaia di migliaia di rifugiati provenienti dalle città cadute nelle mani dei ribelli (si calcola che nel quartiere vivano adesso oltre un milione di persone), la guerra non sa di tatticismi e vuota propaganda, ma di stenti quotidiani e operazioni di bassa macelleria. Per arrivare in questo luogo ci lasciamo alle spalle una Damasco che sembra tornata a nuova vita.

IL TRAFFICO è intenso, sin dalle prime ore del mattino. Nell’aria non riecheggiano più le batterie d’artiglieria piazzate sulla montagna a martellare la periferia (Ghouta) in mano ai ribelli. E nel cielo non sfrecciano i caccia. La sera, poi, specie nei quartieri più abbienti, è una festa per i giovani, anche se la luce manca in molte zone.

La strada che ci porta a Sayyida Zainab è quella per l’aeroporto. Si attraversano zone, come Kfar Sousa, che recano i segni di pesanti bombardamenti, poi si svolta verso sud in direzione Deraa. Una ventina di chilometri ed ecco gli edifici popolari di Sayyida Zainab avvolti nel grigiore dell’indigenza, senza intonaco, spesso senza infissi alle finestre. Le strade sono ricoperte da uno spesso strato di terriccio. L’asfalto è sparito, spesso esploso sotto i corpi di mortaio.

Le macchine degli Hezbollah si distinguono per un particolare, non hanno targhe. Sono le facce degli occupanti che fanno fede ai posti di blocco che circondano il quartiere. Barriere di ferro e di cemento, filo spinato. Uomini armati dappertutto, tenute mimetiche: quelle della milizia popolare non hanno insegne, gli uomini di Nasrallah ostentano una fettuccia gialla sulla spalla. Un miliziano sale in macchina con noi. Barba incolta, kalashnikov e telefonino ultima generazione. La prima tappa è Shara Tin, la via del Fico d’India, detta anche la via delle scuole, non a caso, affollata di ragazzi e ragazze con i libri in mano.

Era più o meno così, ma un paio d’ore più tardi, il 21 febbraio scorso, quando una macchina-bomba è stata fatta esplodere all’angolo del suk delle verdure. «Mi è sembrato che il mondo si fosse rivoltato », dice Zuher al Frej anche lui un venditore del suk. Ma appena la gente s’è ripresa dallo shock e ha cercato di dare aiuto, due kamikaze hanno completato l’opera: 83 morti e 128 feriti.

Quel giorno nella guerra che non conosce pause tra il regime siriano e l’Antistato islamico, o Califfato che dir si voglia, s’è aperto un nuovo fronte, proprio in questo quartiere dove sorge una mausoleo che rimanda alla tradizione sciita e, per contrasto, stimola l’intransigenza del radicalismo sunnita.

Sayyida (la Signora) Zainab, è una povera, polverosa periferia con al centro una moschea tutta rilucente di specchi, che ospita i resti mortali di Zainab, figlia di Ali e Fatima, nipote di Maometto. Un luogo da onorare e difendere ad ogni costo, secondo gli sciiti, mentre per i jihadisti di matrice sunnita si tratta solo di un falso idolo da demolire a colpi di auto bombe.

Religione come pretesto della politica. Tuttavia è qui, tra le pieghe di questa interminabile diatriba che il capo degli Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha trovato nel 2013 la giustificazione principale per schierare i suoi uomini a fianco del regime di Assad: «Per difendere i luoghi santi sciiti» dichiarò in uno dei suoi sermoni alla televisione libanese. Ed era stata quella la prima di una serie di allusioni alle manovre dell’Arabia Saudita, il grande nemico a cui Hezbollah attribuisce la regia della rivolta armata contro il regime di Damasco affidata ai gruppi sunniti radicali, “ takfiri”, come dicono gli sciiti.

Tuttavia, oggi che i miliziani Hezbollah sono sparsi per i quattro angoli della Siria, dalle montagne del Qalamon, al confine con il Libano, alla periferia di Aleppo, si direbbe che, a parte «la difesa dei luoghi santi sciiti», altre sono le ragioni per cui Hezbollah continua a combattere a fianco dell’esercito siriano. E, a giudicare dalla decisione degli Stati del Golfo di dichiarare la milizia sciita libanese “un’organizzazione terrorista”, queste ragioni avrebbero a che vedere più con l’espansionismo iraniano, di cui Hezbollah sarebbe strumento efficace, che con antiche questioni dottrinarie.

Chiedo ad alcuni parenti sopravvissuti all’attentato di febbraio se hanno ancora paura: «Daesh — risponde Ayman, che ha la mano sinistra bloccata da un’ingessatura, ma ha dovuto piangere la morte del fratello e della cognata — ci proverà di nuovo, perché odiano questo luogo e la gente che ci abita. Ma non li faremo avvicinare».

I miliziani Hezbollah, giovani spesso giovanissimi con un tenue velo di barba e la cresta all’ultima moda, seguono attentamente i nostri scambi con i testimoni. Domando ad uno degli uomini armati cosa ne pensa della promessa di Nasrallah di difendere i luoghi santi: «È il suo destino — risponde sorridendo — ed anche il nostro». Ma come mai il potente servizio informazioni non ha funzionato? «Neanche noi siamo perfetti», sorride. «È difficile — continua — individuare un malintenzionato in mezzo alla folla. E quella mattina qui c’erano migliaia di persone».

Passiamo per le stradine del suk interrotte da blocchi di cemento, guardate a viste da militari dai capelli bianchi. Ecco Shara Sudan, la via Sudan, dove il 31 gennaio, stesso copione, una autobomba e due kamikaze appiedati hanno fatto strage di soldati siriani e di miliziani. Perché questo è il luogo di ritrovo dei militari in partenza per le rispettive destinazioni. Quella mattina 42 soldati e 29 miliziani ci hanno lasciato la vita.

Aji Mohammed aveva un negozio di generi vari proprio di fronte al luogo dell’esplosione, ma quella mattina, erano le 10,30, era andato a trovare un amico di Deraa alloggiato all’Hotel Ebla. Poco lontano ma quanto basta per salvare la pelle. «Ho ricostruito tutto — vede? — per ora con i tubi di metallo, ma nessuno mi ridarà il mio vecchio negozio».

Arriva una coppia di rifugiati di Idlib a prendere il pano a prezzo politico, le larghe pagnotte basse che costano centesimi di dinaro. Lui, Ayman, è un insegnante. «Grazie a Dio ho ripreso a lavorare. Qui ci sono migliaia di bambini che hanno bisogno di studiare. Ma la sera faccio un corso di addestramento con la milizia popolare. È necessario».

Il santuario di Sayyida Zainab è ricoperto di mattonelle tipiche dell’architettura persiana, in particolare l’azzurro splendente della scuola di Kashan, che qui chiamano Kislami. Un funerale attraversa il cortile pavimentato di marmo bianco. La bandiera gialla di Hezbollah, avvolge la bara di legno grezzo. Ai muri sono attaccati gli adesivi con le immagini dei “martiri”. Dentro il santuario, uomini si prostrano e si abbandonano sulle grate d’argento che racchiudono, come una gabbia, la tomba di Zainab. Tetto e pareti ricoperti di specchi rimandano l’effetto di una grande padiglione tempestato di diamanti dalle infinite sfaccettature. I tappeti di Qom accomodano decine di pellegrini, alcuni hanno facce asiatiche, orientali.

«È vero, questo è uno dei luoghi più caldi della Siria. Perché c’è chi vuole far esplodere l’ostilità tra sciiti e sunniti — dice nel suo ufficio il manager della moschea, Mohsen al Islam, ex ingegnere edile, impiegato nel settore petrolifero —. Ma questo santuario non è degli sciiti, o dei sunniti. È di tutti». A difenderlo, però, sono gli Hezbollah. Come lo spiega? «Gli Hezbollah, sono prima di tutto arabi e musulmani. E come tali ci assistono ». Quindi secondo lei tra Hezbollah, la Siria e lo Stato Islamico non è in corso una guerra di religione. «Per niente, vogliono soltanto distruggere la Siria per dividersi le spoglie».



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