Il «job s act» di Parigi, sfida finale per hollande

Il «job s act» di Parigi, sfida finale per hollande

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Già dire «Job act alla francese» è improprio in un Paese che preferisce consummation rapide a fast food e difende la purezza della lingua, al punto da accapigliarsi sulla riforma dell’accento circonflesso. Se rischia di diventare il titolo di una riforma del mercato del lavoro all’italiana, ecco tornare in scena lo psicodramma sociopolitico che da anni paralizza la Francia e impedisce ai governi di mettere mano a riforme strutturali — dalle pensioni all’impiego statale — e al risanamento della spesa pubblica.
Intanto, la disoccupazione resta alta e costante dall’epoca di Mitterrand e la spesa dello Stato — con il concorso determinante del «buco» dell’assistenza sociale — veleggia al cento per cento del Pil. (Anche se Parigi può ancora permettersi indifferenza ai richiami di Bruxelles).
La riforma del governo socialista di Manuel Valls è un tentativo di rendere più flessibile il mercato del lavoro in entrata e in uscita, di ridurre importi e discrezionalità delle indennità di licenziamento e di attenuare i guasti della legge sull’orario di lavoro a 35 ore, abbassando la retribuzione dello straordinario e favorendo accordi collettivi d’impresa.
Niente di nuovo sotto il sole della flex security , criterio adottato quasi ovunque in Europa, ad eccezione della Francia, appunto gelosa delle sue eccezioni. L’obiettivo è di alleggerire carichi sociali degli imprenditori e rendere più dinamico il mercato, soprattutto a favore delle piccole e medie aziende. Economisti e analisti concordano sul fatto che un sistema bloccato e protezionista non favorisce né assunzioni né sviluppo d’ impresa, ma precariato, assistenzialismo e contratti a tempo determinato, a danno soprattutto delle giovani generazioni.
Il potere d’interdizione delle organizzazioni sindacali, nonostante un consenso ridottissimo in termini di voti e iscritti, resta decisivo e corroborato dalla mentalità collettiva, trasversale agli schieramenti politici quando sono in gioco diritti acquisiti.
Il governo promette di andare fino in fondo, salvo emendamenti e concessioni, ma è sotto scacco.
I sindacati hanno mobilitato la piazza, in parte per richiedere cambiamenti, in parte per imporre il ritiro del provvedimento. In campo sono scesi anche gli studenti che lamentano la «precarizzazione» del loro futuro. Non sono più gli stessi che, nel 2006, affossarono il progetto per il primo impiego dell’allora primo ministro Villepin, ma la mentalità del posto fisso si tramanda da generazioni.
Fioccano infine le critiche da parte di partiti e gruppi parlamentari della sinistra e s’infiamma la polemica all’interno del partito socialista. In prima linea, Martine Aubry, madame 35 ore, la quale accusa il presidente Hollande e il premier Valls di volere imboccare la strada del liberismo, tradendo ideali del socialismo francese. Un refrein non nuovo, in un Paese in cui liberismo ha il sapore di un insulto.
A complicare le cose, la pessima comunicazione che ha accompagnato il provvedimento e, di conseguenza, una contestazione preventiva e ideologica, al di là dei contenuti.
Lo scontro rischia di essere decisivo per le residue sorti di rielezione del presidente Hollande. Da qui al maggio 2017, gli restano poche carte da giocare: il calo della disoccupazione, un po’ di crescita economica, il consenso sulla sicurezza antiterrorismo e sulle operazioni militari all’estero.
Secondo molti osservatori, non abbastanza per frenare l’erosione a sinistra e il populismo montante dell’estrema destra. Tanto più che, a destra, Alain Juppé è il favorito alle primarie contro Nicolas Sarkozy. A Juppé cominciano a guardare con interesse anche il centro moderato e ambienti della sinistra riformista. L’ex leader rossoverde Cohn-Bendit propone addirittura una grande alleanza che abbracci centro destra e centro sinistra. Una specie di grosse Koalition alla tedesca o di «partito della nazione» all’italiana. Ma attenzione ai ricorsi storici: proprio Alain Juppé, nei panni del premier, dovette arrendersi quando le piazze si opposero alle sue riforme. «Conservazione», in Francia, non è solo un termine politico.
Massimo Nava


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