Pierre Vermeren: «In Belgio una rete di origine marocchina»
Il ventre molle dell’Europa è la catastrofica mancanza di integrazione e di lavoro. Oltre a una ignoranza quasi totale della predicazione radicale islamista
Su quanto accaduto in Belgio e soprattutto sulla «natura», le motivazioni e i metodi della cellula jihadista che avrebbe provocato le esplosioni, abbiamo intervistato Pierre Vermeren professore all’università di Parigi 1 Panthéon-Sorbonne.
Fra le sue ultime pubblicazioni: Le choc des décolonisations, de la guerre d’Algérie aux printemps arabes (2015), e La France en terre d’islam. Religions et colonisation XIX-XXe siècles (2016).
Professor Vermeren, perché Bruxelles oggi è diventata la capitale europea della jihad?
Era già stata la retrovia degli attentati di Parigi nel novembre 2015 prima di essere colpita a sua volta. Accade perché si tratta di una città aperta, nel cuore dell’Europa, e ospita un’importante comunità marocchina originaria della regione settentrionale del Rif (tanto che le nascite dei bambini di origine marocchina sono diventate la maggioranza nell’area di Bruxelles).
Questa comunità immigrata ribelle ha due caratteristiche che hanno preparato gli eventi attuali e l’adesione di molti giovani marocchini del Belgio alla jihad: da un lato, una parte importante della gioventù si è data allo spaccio dell’hashish del Marocco, facendone un’attività criminale e mafiosa internazionale; dall’altro, le autorità hanno lasciato che questa popolazione finisse nelle mani di predicatori sauditi e iraniani fin dagli anni ’80. Fra la radicalizzazione «religiosa» e le pratiche criminali, tutto era pronto per sfociare, grazie alla guerra in Siria, nel terrorismo e nella jihad.
Come lavorano – per quanto sappiamo – le reti jihadiste a Bruxelles?
La criminalità nel traffico di droga è internazionale. I trafficanti esportano l’hashish dal nord del Marocco in tutta l’Europa occidentale, dalla Spagna ai Paesi bassi.
Il network è antico e solido, i delinquenti sanno passare frontiere, preparare documenti falsi, affittare container, nascondersi, trafficare, comprare armi ecc. I belgi non hanno avuto un’esperienza coloniale nel Maghreb e faticano a comprendere il funzionamento delle società mediterranee, anche quelle insediate in Europa, e d’altra parte, non si sono mai interessati all’islam.
Questi gruppi, ma anche i trafficanti e i predicatori, hanno dunque agito a modo loro e in libertà, circolando in tutta Europa. Tanto più che le comunità di Rif sono presenti anche nel nord della Francia, nei Paesi bassi, in Spagna, in Italia e così via. Questo offre loro retrovie e reti di appoggio. E soprattutto, i rifani sono molto diffidenti verso chi è esterno alla loro comunità.
Come reclutano le persone, non solo gli «operativi» ma anche chi li aiuta e li nasconde (come è accaduto nel caso di Salah)?
Si tratta di reti di trafficanti, ma anche di cugini e parenti (forse con riferimenti ai villaggi o alle tribù d’origine). Ecco perché ci sono grandi gruppi con una base logistica davvero impressionante, di decine di persone alla volta.
È molto diverso dagli attentati di Charlie Hebdo e del supermercato kosher a Parigi, perpetrati da giovani un po’ sbandati e isolati reclutati da predicatori esperti. Stavolta si tratta di reti criminali costruite su base tribale o familiare, nelle quali si mescolano piccoli delinquenti, cugini e amici. Chi passa all’atto criminale ha sovente ricevuto una formazione complementare in Siria, ma trova in loco reti «dormienti» importanti.
I servizi segreti come possono gestire il fenomeno?
È un lavoro molto complesso perché i gruppi rifani parlano una lingua particolare, il berbero del Rif (ma si destreggiano anche con lo spagnolo, l’olandese, il francese e l’arabo marocchino) ed evidentemente questa lingua è ignorata dalla polizia belga e da quella francese, anche quando recluta persone originarie del Nordafrica. È dunque necessario un lavoro culturale e linguistico.
Non solo: le mafie della droga, come le mafie italiane, hanno mezzi e abitudini molto elaborati, e la polizia belga, a differenza di quella italiana, non è affatto attrezzata per lottare contro questi gruppi. C’è poi la polizia marocchina che rivendica il fatto di aver avvertito i belgi dell’imminenza di un attacco, come era già stato per Parigi; ma questa polizia non lavora bene in Belgio, perché i rifani diffidano molto dello Stato marocchino (soprattutto a causa della guerra nel Rif nel 1958-59 e delle repressioni brutali del 1984 e del 2011). Occorre dunque una cooperazione internazionale fra le varie polizie e molti esperti e poliglotti per poter penetrare queste reti. Non sarà facile.
Quali obiettivi si propongono i jihadisti con questi attacchi? Reclutare altre persone oppure nascondere quel che sta succedendo in Siria e Iraq dove Daesh sembra in difficoltà?
Per scatenare questi attacchi nel loro «feudo» in Belgio erano certamente sotto pressione dopo gli attentati a Parigi nel novembre 2015, perché le conseguenze degli ultimi attentati di Bruxelles per loro saranno catastrofiche. Le polizie di tutta Europa e del Maghreb verranno a smantellare le reti… Ma il cosiddetto Stato islamico spera in ricadute positive, ad esempio su nuove vocazioni alla jihad in Libia, Siria o Iraq per essere riusciti a colpire nel cuore dell’Europa. Sperano di provocare reazioni di rigetto o di segregazione da parte degli europei verso i musulmani, misure di sicurezza da parte dei governi e l’elezione di governi ostili all’islam, per spingere i giovani musulmani nelle braccia dei salafiti.
La guerra civile e le tensioni sono uno dei loro obiettivi. Ma anche, certo, questo permette di camuffare i loro fallimenti e arretramenti in Iraq e Siria.
Questi attacchi mostrano forse il fallimento dei modelli di integrazione?
Certamente il modello di integrazione è catastrofico in diversi paesi. Apparentemente, i Paesi bassi sono riusciti meglio di altri a integrare le popolazioni dei rifani marocchini. Ma in Belgio, come nelle grandi città francesi, il concentrarsi di popolazioni povere in ghetti , dove gli ambienti criminali e i predicatori religiosi operano quasi in libertà, portano a risultati catastrofici: descolarizzazione, scarsa padronanza della lingua, disoccupazione per gran parte dei giovani. Il risultato è che tutto un settore della gioventù, in particolare i maschi, è disponibile verso predicatori o attività criminali. Non si può andare avanti così…
In che modo l’operato dei paesi occidentali in Medioriente aiuta la radicalizzazione dei giovani musulmani in Europa?
Evidentemente offre facili giustificazioni ai reclutatori. Va detto che gli interventi militari a ripetizione in Afghanistan, Iraq, Libia e in Siria sono stati catastrofici quanto ai risultati.
Al tempo stesso ci si rende conto che non intervenire è egualmente devastante: non è pensabile che si lasci crescere lo Stato islamico in Siria, in Iraq e adesso in Libia… Ma solo i governi locali, anche illegittimi, hanno l’autorità per agire, magari con l’appoggio dell’Onu.
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