Regeni. Dalla data della morte alle torture tutti i buchi nella nuova versione

by redazione | 26 Marzo 2016 9:35

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CI sono una rapina senza il denaro, una tortura senza torturatori, cinque presunti assassini morti, e dunque muti per sempre, in questo disperato, e scalcagnato, tentativo egiziano di offrire una verità sull’omicidio di Giulio Regeni. Una ricostruzione — quella offerta tra ieri e giovedì dal ministero degli Interni del Cairo — che però non può però reggere alcuna prova di verità per almeno quattro, incontrovertibili, motivi.

I MOVIMENTI DI DENARO

La banda di quattro gangster uccisa nel conflitto a fuoco (non è chiaro chi sia la quinta vittima: un passante morto per caso o addirittura un cadavere che trasportava la gang) era «specializzata — dicono gli egiziani — nel camuffarsi da agenti di polizia e sequestrare stranieri per rapinarli ». Dunque, potrebbero averlo fatto anche con Giulio. Ora al di là della bizzarra circostanza della specializzazione («strano che non abbiano detto che fossero esperti nel rapinare i ricercatori con i capelli castani…», ironizza un investigatore italiano), peccato che questi signori non avessero nulla da rapinare: Giulio non aveva soldi in tasca. Se non quel bancomat nero, mostrato dalla polizia come uno dei reperti, che però non ha registrato alcun movimento: 800 euro erano depositati al 25 gennaio, giorno della sua scomparsa, e 800 euro ci sono ora. Non solo: i genitori hanno ritrovato anche in casa i 300 euro che il ricercatore italiano teneva per le emergenze. Intatti. Così come a casa, nel solito cassetto, c’era il computer di Giulio, l’oggetto più di valore che possedeva. Cosa avevano da rapinare quindi i rapinatori?

LE SEVIZIE

La seconda, grande, incongruenza, riguarda la data della morte. Hanno raccontato la sorella e la madre di uno degli egiziani uccisi che Giulio avrebbe reagito alla rapina e per questo sarebbe stato assassinato. Ma l’autopsia italiana non lascia spazi ai dubbi: Giulio è morto almeno sette giorni dopo la sua scomparsa. Non solo. Il suo corpo mostra segni incontrovertibili delle torture: sono circa 20 le fratture in tutto il corpo, soprattutto alle gambe e alle braccia; ci sono segni di bruciatura all’altezza della scapola sinistra, tagli che sembrano essere stati fatti a distanza di giorni, nessuna lesione interna a conferma che chi picchiava era un professionista. Così come da boia era la manovra che ha portato alla frattura della vertebra cervicale, che ha causato la morte di Giulio. Per una reazione scomposta a una rapina si può ridurre in questa maniera un ragazzo?

IL FALSO AGENTE

Ancora: se è stata una rapina, e dunque un caso, chi erano quei poliziotti che a dicembre sono stati nel palazzo di Giulio per chiedere documenti? E chi era quell’agente della National security army che il giorno prima che il ricercatore sparisse aveva chiesto di lui ad amici e conoscenti? Lo stesso che poi tornerà a fare le stesse domande dopo la scomparsa? Tarek Saad Abdel Fatah, il capo della banda assassinata, al quale hanno trovato il falso tesserino, aveva 52 anni. Mentre due diverse fonti dicono a Repubblica che chi cercava Giulio era «un giovane agente». E, poi, se così fosse, perché tornare a casa dopo il «rapimento a scopo di rapina» e non prendere il pc portatile, il bene più prezioso? Infine, ma non per ultimo: chi era la ragazza che ha fotografato Giulio nell’assemblea sindacale il 13 dicembre? Un’innamorata o un’infiltrata degli apparati di sicurezza?

I DEPISTAGGI

Marchiano è poi il depistaggio messo in scena ieri sera. In quelle foto, con gli effetti personali, diffuse dal ministero degli Interni, solo i documenti sono di Giulio. Non è suo quel borsone con lo stemma dell’Italia, non sono suoi i telefonini e gli occhiali da sole. Non è suo l’hashish: come dimostrano gli esami tossicologici, Regeni non fumava. «Oscuro — ragiona un investigatore italiano — è il motivo per cui i presunti assassini abbiano deciso di conservare il passaporto di Giulio, un “morto così celebre”». Su questo assassinio, oltre all’Italia, si è mossa l’intera comunità internazionale, a partire da Barack Obama. E il presidente egiziano, Al Sisi, ha dovuto prendere una posizione ufficiale nella sua intervista a Repubblica promettendo «verità». «Quale assassino conserva in casa la prova regina di questo crimine?».

LA SECONDA PISTA

Gli investigatori italiani stanno comunque cercando risposte a tutte queste domande. Per questo, non stanno trascurando alcuna ipotesi, anche le più suggestive. Tutto si muove attorno alla reale identità di questi cinque balordi. E a quel tesserino da falso agente: potrebbe essere, com’è assai probabile, soltanto un depistaggio. Ma anche altro. I servizi egiziani usano, questa è da tempo la denuncia delle Ong e degli attivisti politici, squadracce abusive per i lavori sporchi. Giulio non è scomparso in un giorno qualsiasi: era l’anniversario della rivolta di piazza Tahrir. Il governo aveva imposto il coprifuoco. Uno studente italiano, comunista, amico dei sindacato tanto da aver proposto loro un finanziamento (poi sfumato) rappresentava, in una giornata come quella, il perfetto nemico del regime. Il 25 gennaio non avrebbero mai potuto circolare bande di rapinatori, troppa polizia. Ma squadracce pronte a impedire manifestazioni sì. Che quella sparatoria di mercoledì possa aver messo a tacere una verità indicibile è soltanto, oggi, una suggestione. In una storia, d’altronde, che però non ha ancora alcuna verità.

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