Macedonia. “Sfondiamo” L’urlo di rivolta contro il muro

Macedonia. “Sfondiamo” L’urlo di rivolta contro il muro

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IDOMENI (CONFINE GRECIA – MACEDONIA ) L’INVITO alla rivolta è scritto cubitale in inglese con la bomboletta rossa sopra due tendoni bianchi: «Afgani, siriani, iracheni, libanesi, somali, pachistani, ghanesi: stanno morendo di fame. Oltrepassa la frontiera!». E trovandoseli davanti, questi migliaia di disperati che a conti fatti non hanno nulla da perdere, viene da pensare che forse nessun muro sarà mai alto abbastanza per fermarli.

 

LA prima vera ribellione del centro profughi di Idomeni, con circa duecento migranti che a metà mattinata hanno abbattuto la recinzione in acciaio e filo spinato tirato su dalla Macedonia, è stata sedata nel giro di mezz’ora dalla polizia di Skopje con qualche gas lacrimogeno e la minaccia dei manganelli. Ma la pace è solo apparente: se qualcosa non cambia ci riproveranno presto e saranno di più. Il punto è che la Macedonia si è accodata alla decisione presa da numerosi governi balcanici di limitare a 580 il numero massimo giornaliero di migranti in entrata sul proprio territorio. Scelta adottata il 18 febbraio scorso durante un vertice dei capi della polizia dal quale era stata esclusa la Grecia. Le autorità di Skopje nella notte tra domenica e lunedì avevano autorizzato il passaggio di circa 300 persone, per poi richiudere immediatamente la frontiera: da qui l’esplosione della rabbia dei migranti, che invece vogliono continuare il loro viaggio della speranza verso Austria, Germania, paesi scandinavi.

Nel frattempo il centro a due passi dalla frontiera e che in teoria potrebbe ospitare duemila persone sta scoppiando. Ad oggi ci sono dislocati almeno settemila migranti e aumentano giorno dopo giorno. Sono accalcati in condizioni disumane, i più fortunati stanno nelle strutture di Medici senza frontiere e Unhcr, altri si sono arrangiati da soli con le piccole tende da campeggio, molti dormono anche per terra, sul prato; in mezzo al campo c’è un acquitrino dove fino a due giorni non metteva piede nessuno, adesso l’avamposto si sta inghiottendo anche quello.

La vera cittadina ormai è questa, più popolosa della vera Idomeni. Sono arrivati anche i cassonetti del Comune, già pieni stracolmi di rifiuti. Di giorno i testimoni di Geova fanno proselitismo. La sera i camioncini dei panini provano a venderli a un euro l’uno.

«Adesso, dopo il caos e la sassaiola, ci vedranno o continueranno a fare finta di niente?», si domanda un ragazzo siriano con in mano lo smartphone, l’unico bene e il più prezioso di tutti. L’altro segno dei tempi, di come cambino le rivolte e la loro percezione, è proprio nella consapevolezza mediatica: «L’unico modo per farvi accorgere di noi è questo — commenta Mohamed, che si fa tradurre dal figlio di dieci anni — senza confusione nessuno saprebbe che siamo bloccati qui, noi che siamo gente scappata dalla guerra». A vedere la fila di furgoncini con l’antenna satellitare piazzati fuori e che fino al giorno prima dell’assalto non c’erano, viene quasi da dargli ragione.

In serata cala un buio che mette soggezione, si sentono le rane dello stagno e i profughi si accendono fuochi per non patire il freddo e l’odore di legna e plastica bruciata prende alla gola. Oggi sono qui ma fino a pochi giorni fa queste famiglie fronteggiavano il mare: hanno ancora i giubbotti di salvataggio rossi che ora utilizzano come materassini per dormire. Fuori dall’ambulatorio di Msf c’è la fila, i medici si danno il cambio ogni dodici ore: «Il 40 per cento delle persone che vedete sono donne e bambini, arrivano sfinite e denutrite. E non sono neanche a metà del loro ipotetico cammino», dice una volontaria, . Mentre ieri una trentina di persone sono ricorse all’assistenza medica dopo il lancio di lacrimogeni, per problemi respiratori. Fuori dal centro opera anche una autoambulanza svedese, in arabo e in inglese c’è un cartello: curiamo gratuitamente.

Intanto il governo di Skopje ha fatto sapere di aver dato il via libera, con l’ausilio dell’esercito, ai lavori di costruzione di una nuova recinzione al confine greco, in corrispondenza di Gevgelija. Un altro muro insomma, ufficialmente con lo scopo di garantire un flusso regolare e più ordinato dei migranti provenienti dalla Grecia. Dall’altra parte della recinzione, quindi del confine, il viavai di camionette dei militari macedoni fa capire che si comincerà presto con la nuova barriera. Per questo fra i migranti è già scattato un nuovo allarme e — si racconta — alcuni di loro sono pronti a oltrepassare il confine spostandosi di qualche chilometro da qui, dove i controlli sono più blandi e il filo spinato non è ancora arrivato. «Per quanto ci riguarda — spiega Ibrahim, iracheno di Tikrit, sbarcato a Salonicco solo tre giorni fa — non ci sono dubbi. La questione non è se riusciremo a passare, ma quando. È solo una questione di tempo e di resistenza. Abbiamo paura, ma ne avevamo di più a restare da dove siamo venuti».

Se mai davvero Ibrahim e le altre migliaia ce la faranno, dovranno solo e semplicemente attraversare tutti i Balcani, cioè le frontiere di Serbia, Croazia e Slovenia. Dove si stanno formando a loro volta altri centri profughi. Da Prêsevo, ad esempio, arrivano notizie di centinaia di respinti al confine croato fatti tornare indietro, al confine tra Macedonia e Serbia. Una odissea davanti alla quale il triste purgatorio di Idomeni sembra quasi rassicurante.



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