Ecco il petrolio impossibile dell’Artico

by LUCA IEZZI, la Repubblica | 14 Marzo 2016 9:56

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C’è un motivo se lo chiamano “petrolio difficile”. Per trovarlo degli ingegneri italiani hanno scandagliato in pieno Mar di Barents (a 85 Km Nord dalle coste norvegesi) fino a 400 metri di profondità. Ma se non si trova il modo di recuperarlo può essere inutile sapere che sotto quel mare freddo se ne nasconde un altro da 180 milioni di barili di greggio.

Così, altri ingegneri italiani hanno commissionato la più grande struttura galleggiante cilindrica del mondo, 115 metri di diametro e 100 di altezza. Dai cantieri Hyundai in Corea del Sud questo “mostro” da 64 mila tonnellate si è goduto il suo unico viaggio di 65 giorni fino a un passo dal Polo Nord. Ad aprile scorso sono iniziati i lavori di ancoraggio e collegamento alla terraferma (oltre 100 chilometri di cavi elettrici). Tanta energia (la Norvegia ha dovuto allungare e potenziare la rete nazionale) serve a far funzionare i 22 pozzi sottomarini. Il sistema – grossolanamente – funziona così: 7 pozzi iniettano acqua, 3 gas e 12 spingono fuori il petrolio fino alla piattaforma in superficie. Un grande serbatoio (queste strutture sono chiamate Fpso-Floating production storage and offloading unit) da cui le petroliere porteranno il prezioso carico alle raffinerie del Nord Europa.

Ci sono voluti 16 anni perché dalla scoperta si arrivasse a ieri notte, quando il “primo olio” ha dimostrato che quell’idea un po’ folle e un po’ spaventosa, chiamata Goliat potesse fregiarsi del record di “Pozzo più al nord del mondo”.

«Se mi avessero proposto questo progetto ora probabilmente avrei detto di no – ammette l’ad di Eni Claudio Descalzi – ma la scoperta del pozzo risale al 2000 e oggi noi godiamo i frutti di quanto fatto in questi anni. La produzione è redditizia con un petrolio dai 50 dollari in su e garantirà 100 mila barili al giorno per i prossimi anni». Barili che Eni dovrà dividere con l’azienda di Stato norvegese, Statoil, socio al 35%. Così come da dividere sono i quasi 5,6 miliardi di dollari di costo (il 30% in più delle prime stime).

Quello che rimane molto italiana è la lista di record e “prima volte” che il progetto ha richiesto. «È come andare sulla luna – spiega Descalzi – le ricadute tecnologiche sono più importanti del viaggio stesso. In realtà negli ultimi anni ci stiamo concentrando nel resto del mondo su giacimenti più facili che possono essere realizzati nel giro di uno-due anni, ma anche in quei casi le scoperte fatte con Goliat ci aiutano».

Non è solo una questione ingegneristica. Nemmeno i norvegesi si erano mai spinti così lontano a cercare petrolio perché ecosistemi così sensibili pongono dei problemi ambientali nuovi. Greenpeace ha apertamente parlato di “inutile monumento”. Eni e Statoil sono state costrette dalle autorità di Oslo a costruire da zero nuovi piani di emergenza (che hanno previsto la formazione anche delle flotte dei pescatori locali). Innovativi anche i sistemi “anti-spill”: barriere che bloccano sul nascere le fuoriuscite di petrolio in mare, per quanto, con la maggior parte delle perforazioni completate, i rischi di un incidente sono molto minori.

Tra i petrolieri e dal governo norvegese Goliat è considerato un progetto “verde” perché sfruttando l’elettricità della terraferma non produrrà CO2, mentre l’acqua e il gas necessari all’estrazione saranno reiniettati nel sottosuolo. Un sistema a zero emissioni, che soddisferebbe il bisogno di energia in maniera sostenibile. Un’altra meta ad oggi considerata impossibile.

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