Rimpatri in vista per 80 mila afghani

by Emanuele Giordana, il manifesto | 25 Marzo 2016 9:14

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È un’Europa poco unita, molto spaventata e molto preoccupata quella che, agli inizi di marzo – due settimane prima del famigerato accordo sui migranti illegali firmato con Ankara – si trova attorno a un tavolo a Bruxelles per cercare di porre rimedio a «un’invasione» dall’Afghanistan, il primo Paese al mondo produttore di profughi, con oltre cinque milioni di persone fuori dai suoi confini e un milione di soli sfollati interni. È un’«invasione» che nel 2015 ha messo a bilancio numeri senza precedenti dal Paese dell’Hindukush. Che ha visto cercare la via dell’Europa a oltre 213mila clandestini afgani e ha contato 176.900 richieste di asilo politico. Numeri ritenuti troppo alti. Tanto che per 80mila fra loro la Ue paventa il ritorno a casa. Che lo vogliano o no.

E’ questo il quadro che emerge da un documento confidenziale discusso a Bruxelles il 3 marzo scorso e reso pubblico da Statewatch, organizzazione di monitoraggio delle libertà civili in Europa. Il Paese della guerra infinita, che conta 2,5 milioni di rifugiati in Iran e 2,9 in Pakistan e che in casa deve gestire un milione di senza casa, ora presenta il conto anche a noi.

Il documento delinea quello che la Ue avrebbe in mente per fermare chi bussa alle sue frontiere. E gli afgani sono una fetta rilevante: secondi solo ai siriani ma più numerosi degli iracheni. Il documento, che paventa «l’alto rischio di una nuova ondata migratoria» tenta di chiarire attraverso quale strada sia possibile impedire che il flusso di afgani in Medio oriente continui la sua marcia oltre la Turchia (dove già se ne trovano 100 mila, 80mila dei quali «documentati») per poi raggiungere la Grecia e da lì l’Europa: attraverso la via balcanica di terra o, come avvenuto per anni, sulle navi che attraccano in Italia. Ma come fermare il flusso degli afgani da un Paese che 15 anni di guerra ai talebani non sono riusciti a pacificare? Soldi. Tanti soldi. E accordi col governo afgano, in parte già negoziati in ordine sparso da alcuni stati membri anche con la mediazione dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (con cui ora però, dopo l’accordo con Ankara, i ferri si son fatti corti).

Il documento confidenziale indica negli incentivi economici la strada maestra di un accordo negoziato per trovare la «strada giusta» (Joint Way Forward) per far restare gli afgani a casa loro. Il governo è sensibile e il dialogo è già iniziato: il 40% del prodotto nazionale lordo afgano – dice il documento – dipende dall’aiuto internazionale (c’è chi sostiene sia molto di più ndr) anche perché i 2/3 della spesa del budget nazionale vanno nel capitolo «sicurezza», nella guerra in una parola. E interrompere o ridurre il flusso di aiuti, avverte Bruxelles, significherebbe far crollare la faticosa costruzione istituzionale messa in piedi a partire del 2001 dopo la rotta dell’emirato talebano. Gli afghani per altro, col governo amico di Ashraf Ghani, hanno già predisposto un piano per contenere un’emorragia di persone in continuo aumento (un sondaggio Gallup di ieri sosteneva che solo il 4% degli afgani ritiene che le cose stiano migliorando). E’ un piano che prevede investimenti nel settore dell’edilizia popolare, nella creazione di posti di lavoro e nella possibilità di negoziare flussi di lavoratori coi Paesi del Golfo (noti recettori di manodopera a basso costo e priva delle minime garanzie). Si tratta di sostenere lo sforzo. Dal punto di vista finanziario la Ue ha già messo sul piatto 1,4 miliardi di euro per il periodo 2014-2020 – l’impegno più alto in assoluto di un singolo donatore in Afghanistan – ma conta di aggiungere subito altri 300 milioni e di accelerare le erogazioni del piano quinquennale.

L’enfasi però, che inizialmente era su quattro settori chiave (agricoltura, salute, giustizia, governance), tende a spostarsi anche sul «restare a casa» o a favorire il quadro per ritornarci il prima possibile. Con pacchetti incentivo ad hoc sia per i rientri volontari, sia per quelli forzati ma stando attenti a «che ciò non attragga invece nuovi migranti». Un accento che si dovrebbe riflettere sulla Conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan che la Ue sta preparando per il prossimo ottobre e dove bisognerà convincere gli Stati membri a non mollare l’impegno. C’è fretta dunque e le cose andranno ben preparate entro l’inizio dell’estate. Puntando soprattutto più sull’aspetto degli incentivi «in positivo» – uniti al controllo dei migranti, alla sensibilizzazione sui rischi della corsa all’oro in Europa, all’istituzione di centri di documentazione e monitoraggio – che non sulla leva brutale del rimpatrio forzato. Che pure, avverte il documento, rischia di vedere 80mila afgani fare a breve ritorno a casa contro la loro volontà. La strada di un concordato tra Stati resta infatti in salita. E in salita è anche la strada che porta a Kabul.

Il documento avverte che se il presidente Ashraf Ghani è sensibile al tema, molti altri componenti del suo governo fanno orecchie da mercante, evidenziando la dicotomia di un esecutivo a due teste (Ghani presidente e Abdullah a capo dell’esecutivo) che in questi mesi ha elargito all’opinione pubblica continue battaglie interne, dalla scelta dei governatori all’atteggiamento verso il processo di pace (vedi articolo a fianco). In questi giorni una mano arriva anche dal Giappone che ha reso noto di aver aumentato la quota di aiuto al Paese per 80 milioni di dollari. Con la differenza che nessuno bussa (o riesce a bussare) ai cancelli del Sol Levante.

L’appuntamento dunque è per ora fissato a Bruxelles per il 4 e 5 ottobre, appuntamento che dovrebbe seguire un’interministeriale sempre in Belgio in estate. L’idea è arrivare alla Conferenza (seguito ideale a Bonn 2011, Tokyo 2012 e Londra 2014) in un clima di reciproca fiducia tra gli Stati membri della Ue e un’Afghanistan nel ruolo del partner affidabile. Preparando il terreno per tempo per fare in modo che gli effetti della guerra infinita non arrivino sempre più numerosi fino alle nostre frontiere.

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