Siria, il prezzo del domani

by Chiara Cruciati, il manifesto | 13 Marzo 2016 17:12

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«Yes, it can». Il segretario di Stato Usa Kerry storpia lo slogan con cui il suo presidente incantò il mondo 8 anni fa e lo appiccica al negoziato siriano. In Svizzera ieri si sono incontrati funzionari russi e statunitensi e Kerry ha assicurato: sì, il dialogo si può fare. Nonostante alcune violazioni della tregua, «il livello delle violenze si è ridotto dell’80-90%».

Domani le sedie intorno al tavolo dovrebbe finalmente riempirsi. Qualcuno è già arrivato: Mohammed Alloush, leader di Jaysh al-Islam e il capo negoziatore dell’Hnc al-Zoabi. L’inviato Onu de Mistura resta in religiosa attesa, mentre gli piovono addosso le precondizioni.

Se le opposizioni venerdì hanno ribadito di volere un governo di transizione senza Assad, ieri Damasco ha detto che del futuro del presidente non intende discutere: «Non tratteremo con nessuno che voglia mettere in discussione la presidenza – ha detto il ministro degli Esteri al-Muallem – Bashar al-Assad è la linea rossa». Ha poi aggiunto che la delegazione governativa arriverà a Ginevra oggi e concederà alle opposizioni 24 ore: se non si paleseranno, Damasco abbandonerà il tavolo.

Le solite dichiarazioni a cui il popolo siriano è dolorosamente abituato, distante anni luce dalle ambizioni di governo e opposizioni. Sulle spalle, una devastazione senza precedenti che i numeri non riescono a catturare. Di numeri certi nemmeno ce ne sono: il pallottoliere Onu è fermo da mesi sui 250mila morti, mentre l’ultimo rapporto del think tank Syrian Center for Policy Research ne denuncia almeno 470mila.

I feriti sarebbero un milione, ma 5 anni di guerra civile fanno immaginare che siano molti di più. Chissà se questi bilanci tengono conto solo delle ferite visibili, degli arti persi, dei siriani divenuti disabili, o calcolano anche gli effetti psicologici del conflitto. Se tengono conto di una generazione intera di giovani che ha perso l’opportunità di studiare, formarsi, trovare un lavoro dignitoso nel proprio paese e non su un barcone diretto verso l’illusorio sogno europeo.

I rifugiati all’estero sfiorano i 5 milioni, 6.5 gli sfollati interni. Basta una semplice somma: la metà della popolazione siriana non vive più nella propria comunità. Chi è rimasto abita in città – Damasco, Aleppo, Homs, Hama, Latakia, Idlib – un tempo simbolo di storia e cultura araba e oggi macerie e devastazione.

Palazzi distrutti, strade divelte, siti archelogici polverizzati, suq svuotati sono lo specchio della rovina dell’economia siriana. A gennaio l’ultima valutazione della Banca Mondiale stimava danni tra 70 e 80 miliardi di dollari alla fine del 2014. Un altro anno è trascorso, un anno che ha visto lo Stato Islamico avanzare a nord ovest e assumere il controllo di quasi un terzo del paese.

A mettere qualche punto fermo è un recente rapporto pubblicato dall’ong World Vision e dalla società di consulenza Frontier Economics: il conflitto è costato alla Siria 275 miliardi di dollari in termini di crescita economica. Ovvero, 4,5 miliardi al mese persi dal settore produttivo e da quello dei servizi. E se anche le violenze si spegnessero ora, il paese continuerebbe a perdere denaro a causa della distruzione delle infrastrutture, dell’evaporazione dell’economia di produzione, dello stop dell’esportazioni di prodotti che prima erano venduti in tutto il mondo arabo.

Fino al 2020 Damasco assisterà allo stillicidio della propria economia, dei servizi, dei settori dell’educazione e della sanità, per una perdita totale che si aggirerà intorno ai 1.300 miliardi di dollari: «Un valore che è 140 volte superiore a quanto attualmente richiesto dalle agenzie Onu ai donatori internazionali», spiega Conny Lenneberg, responsabile di World Vision per il Medio Oriente.

Da ricostruire c’è un intero paese, un business stellare su cui la comunità internazionale che ha infiammato il conflitto si getterà: pochi mesi fa Syria Report parlava di 200 miliardi di dollari da spendere per la ricostruzione. E da incassare: in prima fila c’è la Russia che ad ottobre ha strappato a Damasco la promessa di aprire le porte alle compagnie russe.

Alla distruzione di capacità produttiva, industrie, settore agricolo, reti idriche e elettriche, settore turistico si affianca il costo umano. Se il tasso di disoccupazione supera ampiamente il 50%, la fuga di metà della popolazione ha privato il paese di professionisti, operai, contadini, insegnanti, medici. Infine, le divisioni interne hanno frammentato la società siriana in etnie, gruppi politici, religioni, una separazione mai vissuta in precedenza.

Saranno necessari decenni per richiudere le ferite aperte da un conflitto fratricida, per rimettere in piedi le normali relazioni sociali in un paese in cui 8 milioni di bambini hanno subito sfollamento, interruzione degli studi, violenze fisiche e psicologiche.

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