Kertész , la cognizione dell’orrore

by Giorgio Pressburger, Corriere della Sera | 1 Aprile 2016 11:05

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Uno degli scrittori di romanzi più noti, Imre Kertész, ungherese, premio Nobel per la letteratura nel 2002, ci ha lasciati. Il suo libro più diffuso nel mondo si intitola, in italiano, Essere senza destino (Feltrinelli, 1999): è degli anni Settanta, e narra la storia dell’autore quindicenne, chiuso nel lager di Auschwitz. Kertész era sopravvissuto alla permanenza in quel luogo orribile e dopo quasi trent’anni aveva narrato la sua vicenda. Oltre a Primo Levi e al poeta romeno di lingua tedesca Paul Celan, nessuno è riuscito a parlare di quell’esperienza con la stessa forza tragica, con la stessa capacità di descrivere ciò che non si può narrare, non si può ritrarre con i mezzi espressivi a disposizione di uno scrittore o di un poeta. Accanto a questi tre nomi possiamo menzionarne un quarto: Art Spiegelman, autore americano di fumetti, noto per la graphic novel in due volumi Maus . Ciò che questi autori hanno fatto per evitare l’oblio dell’orrore, parlarne agli uomini, descriverlo, renderlo indelebile nella mente dei lettori, non è riuscito, secondo me, a nessun altro.

Chi era Kertész? Nato nel 1929, figlio di una famiglia di ebrei della piccola-media borghesia di Budapest, portato ad Auschwitz a quindici anni, tornato in Ungheria tre anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, svolse un certo apprendistato presso vari giornali e cominciò a scrivere racconti, commedie, sketch da cabaret, per procurarsi da vivere. Durante gli anni dello stalinismo ebbe una vita molto difficile, perché non condivideva la filosofia e la prassi di quel regime, pur tenendosi lontano da qualsiasi organizzazione politica. Pubblicò Essere senza destino soltanto nel 1975, prima non glielo avevano permesso in nessun modo. Quel libro tuttavia non poté uscire dall’oscurità, non era segnalato, sostenuto, indicato da nessuno. Dovettero passare molti altri anni prima che fosse pubblicato in Germania. Vicissitudini private, ristrettezze economiche, malattie in famiglia aggravarono ancora la sua situazione, finché un secondo matrimonio e un certo miglioramento della sua posizione sociale non gli permisero, dopo la caduta del Muro di Berlino, di estendere le sue frequentazioni intellettuali, favorendo l’emersione nella letteratura mondiale delle sue opere.

Intanto altri suoi romanzi e racconti presero a circolare in Europa, dove vennero tradotti in molte lingue. Quando qualcuno lo propose al premio Flaiano di Pescara (dove poi ebbe un riconoscimento speciale), nessuno della giuria conosceva ancora né il suo nome né le sue opere. Era il 2002. Pochi mesi dopo arrivò il premio Nobel. E così le tragedie del lager, le restrizioni da parte degli stalinisti, la povertà, la miseria civile vennero in qualche modo ricompensate dal destino: Kertész divenne celebre in tutto il mondo, fu invitato a tenere conferenze in molte nazioni, a scrivere sui giornali, a sviscerare i problemi del razzismo e dell’antisemitismo di nuovo dilagante nel mondo. Negli ultimi anni era vissuto in parte a Berlino, in parte a Budapest, dove è morto.

Le sue opere parlano in modo serio, a volte straziante, ma mai retorico o inautentico: dal punto di vista letterario e filosofico si tratta di libri di un rigore e di una consequenzialità talmente forti da serrare la gola. Questi lavori non si adattano all’andamento odierno degli indirizzi editoriali, non concedono facili intrattenimenti, ma obbligano il lettore a una riflessione rigorosa, seria, umana e non da automatismo del mercato. Tuttavia proprio per questo offrono un godimento fuori dell’ordinario, una forza che ci ridà energia e fiducia nel mondo, nella vita, per quanto vano e oscuro possa essere il primo, piena di terribili ostacoli la seconda.

Bompiani e Feltrinelli hanno avuto il coraggio di pubblicare questi libri. Ecco alcuni titoli: Kaddish per un bambino non nato (Feltrinelli, 2006 ), Fiasco (Feltrinelli, 2003) , Il vessillo britannico (Bompiani, 2004), Io, un altro (Bompiani, 2012) e alcuni volumi di racconti brevi. Essere senza destino , da cui è stato tratto anche un film, è un altro tipo di lettura: appartiene a un tipo di narrazione estraneo a qualunque schema o tema precedente. Tanto è forte che ho sentito dire a uno scrittore che era invidioso delle sofferenze di Kertész nei campi di concentramento, che lo avevano dotato di una forza e di un’intelligenza irraggiungibili.

Una considerazione riguardante l’uomo Kertész. Per chi lo ha conosciuto di persona, c’era in serbo un’altra sorpresa. Non in una sua parola o frase era riscontrabile alcuna forma di odio, desiderio di vendetta, o acredine. Alcun vanto d’aver superato una prova esistenziale così dura, così mortale. Di quelle vicende non parlava nemmeno: le aveva trasferite nelle sue opere, che dovevano parlare per sé. Non erano frutto di artificio, di macchinazione artistica: erano brandelli di carne umana ancora sanguinante, palpitante.

Era una persona radiosa, soltanto a salutarlo ci si predisponeva alla serenità, alla benevolenza, al senso di solidarietà. Ma in questo atteggiamento non c’era nulla di premeditato o esibito. Era tutto naturale, autentico, senza alcuna possibilità di equivoco. Per questo era una gioia incontrarlo e un dispiacere non vederlo per qualche tempo. Insieme alla seconda moglie (la prima era morta molto tempo fa) costituivano una coppia innocente e ingenua come quella di Tamino e Pamina di Mozart, nel Flauto magico . Infatti, si trattava di due grandi amanti della musica, senza preclusione per questo o quel genere. Stranamente, la loro conoscenza sorridente trasportava gli amici proprio nell’ambito della musica, e non nell’ambito del nero dolore, dell’oscura sofferenza in cui la vita li aveva trascinati. La prima cosa che si percepiva, incontrandoli e facendosi cingere da abbracci e parole di amicizia, era al di fuori del potere della parola, ma circonfuso della dolcezza e della forza di «Frau Musika», la Signora Musika, come l’aveva chiamata Bach.

L’ultima volta l’ho incontrato, qualche anno fa, a Montecassino. Eravamo saliti insieme a visitare l’abbazia e già si sentiva lo sforzo che gli era costato il tragitto. Eravamo ospiti di un premio letterario sulla letteratura di guerra. Sotto, nel museo, si potevano vedere documenti filmati dell’attacco aereo a quel monastero raso al suolo nel 1944. Il sorriso di Kertész non era svanito; era soltanto diventato meno luminoso, meno radioso di prima. Per il resto non aveva fatto commenti, soltanto si era lasciato andare a qualche cenno verbale tipo «già», oppure «è così». Durante tutta la discesa nella sala della conferenza aveva solo canticchiato in tedesco l’aria di un’opera, non avevo capito quale, né avevo osato disturbarlo, perché sotto quella melodia sentivo celato un lancinante dolore.

Ora il mondo dovrà fare a meno della presenza di un uomo che faceva onore al genere umano, alla sua nazione, al suo secolo. Il tipo di scrittore, di poeta a cui apparteneva, oggi diventa sempre più raro, ma il suo esempio dimostra che comunque l’umanità genera esempi sempre nuovi, quali non siamo capaci di prevedere.

Giorgio Pressburger

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