Della pena e del sorriso di Doina Matei

Della pena e del sorriso di Doina Matei

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In altri tempi sarebbe stata letta come una bella storia edificante. Edificante, cioè, come la letteratura virtuosa e devozionale: ovvero quella capace di costruire modelli positivi e di proporre buoni esempi. Quindi, in grado di edificare moralmente il lettore. Una storia in qualche modo a lieto fine, pur nella tragedia cui rimanda, e ricca di lezioni significative: una giovane donna che, per sua responsabilità e complice un destino malvagio, uccide un’altra giovane donna e finisce in carcere con una condanna esemplare (per quella stessa fattispecie penale le sanzioni medie irrogate equivalgono alla metà). Qui, a seguito di un faticoso e doloroso itinerario di espiazione, si emancipa progressivamente dal suo crimine.

Legge, scrive, si istruisce, lavora e compone versi. Vince un premio nazionale di poesia, riservato ai detenuti e intrattiene relazioni con molti interlocutori (compresi studenti e docenti dell’Università di Perugia). Mantiene costantemente quella che viene definita “buona condotta” nelle diverse carceri che ha conosciuto; riceve sempre ottimi giudizi da parte degli operatori penitenziari; e intrattiene con tenacia, rapporti assidui con i due figli, rimasti in Romania e affidati alla sorella.

Fino a quando, scontata metà della pena, ottiene l’applicazione dell’articolo 21 dell’ordinamento carcerario, quello che consente il lavoro esterno diurno.

Sembrerebbe la realizzazione della concretissima utopia dell’art. 27 della Costituzione dove, al comma 3, parla di “rieducazione” del condannato.

Come detto, in altri tempi, un tale racconto sarebbe stato intitolato “Redenzione”. Ma oggi questo apologo morale sulla grandezza del pentimento e del riscatto viene sfigurato e sporcato. Così il fatto che in quelle foto “sorridesse” diventa un inesorabile capo di imputazione. Questo giustizialismo dozzinale non ha nemmeno la grandezza della ferocia che lo spirito di vendetta talvolta assume: è cattivismo miserrimo da vagone ferroviario. Tante le cause, ma ce n’è una che mi interessa in particolare. Ed è il peso crescente che, insieme alla codardia interessata del ceto politico e all’ignavia farisaica di quello intellettuale, assumono, nella produzione di allarmi sociali, “gli sguardi cattivi della gente”. Quest’ultimo è il titolo di un racconto di un autore, Claudio Piersanti, che ha scritto bei libri dai bellissimi titoli.



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