Sud, i sette anni che hanno sconvolto il lavoro in fabbrica

by Adriana Pollice, il manifesto | 21 Aprile 2016 8:51

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Per la prima volta, dalla rottura nel 2008, Fim, Fiom e Uilm sono tornati in piazza ieri a Napoli per lo sciopero generale di quattro ore, proclamato per il rinnovo del contratto nazionale di categoria. In 3mila si sono presentati davanti al portone dell’Unione industriali e da lì sono andati in corteo verso la sede della regione. Secondo la Cgia di Mestre, dal 2008 al primo trimestre del 2015 si sono persi 580mila posti di lavoro nel meridione, 250mila in Campania. Il settore metalmeccanico è tra i più colpiti.

Emblematico l’esempio dell’auto. Otto anni fa l’allora Fiat contava 6mila dipendenti diretti nel Giambattista Vico di Pomigliano d’Arco. Poi cominciò la cura Marchionne: il primo atto fu la rottura sindacale sulla firma del contratto (che la Fiom non ratificò) e una lunga stagione di denunce per comportamento antisindacale da parte delle tute blu della Cgil, parzialmente conclusa con l’elezione dei Rls della Fiom a luglio 2015. Nel frattempo i dipendenti sono scesi a circa 4mila di cui 1.800 dal 2014 lavorano pochi giorni al mese in contratto di solidarietà. I picchi di vendita della Panda hanno consentito solo a 200 di questi di venire riassorbiti sulle linee dallo scorso marzo ma la filosofia al Vico resta invariata: ritmi forsennati per circa 2mila, inclusi gli straordinari il sabato, poco lavoro per i 1.600 ancora in attesa che l’azienda introduca un secondo modello che consenta di riassorbirli tutti. Decimato l’indotto Fca, nell’ex Fma di Pratola Serra (che produce motori) si è passati da 4 giorni lavorativi al mese di tre anni fa a 15 nel 2016 ma la crisi non è ancora alle spalle.
A Pomigliano ci sono le origini dell’industria aeronautica italiana che, un pezzo per volta, rischia di sparire dalla regione: Alenia (del gruppo Finmeccanica) ha chiuso l’impianto di Casoria nel 2013 e ceduto a giugno quello di Capodichino all’Ati tech. Con la riorganizzazione in divisioni del colosso pubblico, il comparto militare è finito al nord, insieme alla realizzazione velivoli. In Campania (Pomigliano, Nola) e Puglia (Grottaglie, Foggia) sono rimaste le aerostrutture cioè la parte meno pregiata e più soggetta alle difficoltà del mercato.

Finmeccanica, che dal 2017 si chiamerà Leonardo, conta in Campania 6.500 addetti diretti e un indotto di 20mila posti, ma realtà come Selex e Telespazio rischiano di finire fuori regione a vantaggio di altri territori. Fermo anche l’affare Ansaldo Sts: venduto da Finmeccanica, insieme alla Breda, ai Giapponesi di Hitachi, il tribunale di Milano sta indagando sulla transazione così gli investimenti sono fermi e non è chiaro cosa succederà dopo giugno, rischiano così il blocco i due impianti napoletani.

Non va meglio alla Fincantieri di Castellammare di Stabia: il nuovo piano industriale prevede la retrocessione del sito partenopeo e di Palermo a cantieri di supporto di quelli del nord. Il lavoro c’è ed è pure tanto fino al 2020 solo che l’azienda preferisce distribuirlo al nord e all’estero. Del distretto degli elettrodomestici del casertano resta molto poco. Dei 5.500 dipendenti diretti della Indesit degli anni ’70, ne erano sopravvissuti nel 2013 solo 815 diventati poi 320 dopo la fusione con la statunitense Whirlpool l’anno scorso. Non producono più ma fanno logistica, resistono i 573 del sito di Napoli dove si fanno lavatrici. Ai lavoratori casertani in esubero è stata data la possibilità di spostarsi nelle sedi del nord del gruppo. Vanno a ingrossare le fila del milione667mila emigrato dal sud al settentrione tra il 2012 e il 2014.

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