Chernobyl anni 30 dopo

Chernobyl anni 30 dopo

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CHERNOBYL ECCOLO lì, il mostro: domani saranno trascorsi trent’anni, e fa ancora paura. Il dosimetro che misura la radioattività, ora che ci siamo avvicinati al cuore devastato della centrale nucleare di Chernobyl trilla come un forsennato. I reduci, i vigili del fuoco e i “liquidatori” che costruirono il sarcofago di bario intorno al reattore numero 4 in fusione, gli si allineano davanti a un centinaio di metri, foto ricordo e occhi lucidi per gli amici che non ci sono più. Il mostro, dietro di loro, pullula di vita: decine di operai lo accudiscono, lo rattoppano, lo mantengono. È malconcio, perfuso e percolato, divorato dal suo ventre incandescente che lotta ancora per liberarsi.
Il futuro è il nuovo sarcofago che gli sta nascendo accanto, a duecento metri di distanza: un immenso scatolone color lamiera alto un centinaio di metri. «Lo sposteranno facendolo scivolare su binari fino al vecchio sarcofago, lo ingloberà e lo renderà sicuro », dice Dima, la guida che l’amministrazione della “Zona di esclusione” ci ha assegnato per varcare il mondo degli incubi atomici. È tutto enorme e smisurato, nella Zona. I palazzi abbandonati, svuotati, derubati da ogni souvenir rivenduto sui mercatini chissà dove, spogliati dei fili elettrici e delle lampade al neon, dei contatori, di tende e stoffe, coperte e vettovaglie. Chissà chi ci pranza, chi ci dorme. Chi ci muore, forse. Ecco i reattori spenti e quelli mai terminati, i villaggi deserti, i depositi di scorie; e hai visto mai un pesce gatto di due metri, come nelle barzellette del pescatore sbruffone? Eccolo lì che guazza placido sotto il ponte di metallo davanti alla centrale, anzi «no guarda bene: sono due!» Mangiano il pane che tirano giù i turisti, dicono pesino un’ottantina di chili e siano niente rispetto agli altri due, «quello che è morto e quello che è stato pescato l’anno scorso per studiarlo: era lungo tre metri e pesava duecenti chili», dice Dima.
Ti aspetti un luogo di solitudini e silenzi, e invece sei in fila tra i turisti. «Siamo tedeschi, di Berlino». Ma che ci siete venuti a fare, qui? Siete studiosi? Ambientalisti? Nuclearisti? «No, siamo solo curiosi». Sono appena tornati dal grande radar sovietico abbandonato di Chernobyl 2, la cittadella militare e missilistica la cui stazione di ascolto tendeva l’orecchio fino in America. Un altro gigante della Zona. Morto anche lui, ma mica del tutto: qualcuno ci ha montato una parabola, lassù tra i tralicci arrugginiti che scalano le nuvole, dove si arrampicano gli appassionati dell’estremo.
Trent’anni fa era un altro mondo. «Un cono di luce, ecco cosa vidi. Aveva un colore incredibile, lampone e fragola. Indescrivibile. Bellissimo». Ci sono notti che non sono come le altre. Tamara Kovalchiuk il 25 aprile del 1986 aveva lavorato al turno serale. «Ero gruista alla stazione di pompaggio delle acque di raffreddamento del reattore numero 4. Avevo 24 anni e abitavo con mio marito e i bambini a Prypjat». Zona 1, la città morta degli operai a pochi chilometri dalla centrale: i palazzoni di dieci piani ospitavano 55mila persone quando due esplosioni svegliarono il mostro nel reattore numero 4.
«Siccome avevo un altro turno la mattina successiva, mi ero fermata a dormire nella foresteria vicino alla centrale, allestita per fare anche piccoli controlli di salute. Ma quella notte ci chiesero di liberare la struttura e di tornare a casa, e vedemmo entrare uomini stravolti con coperte sulla testa. Erano i primi intervenuti sul reattore, ma noi non sapevamo nulla. A Prypjat scoprimmo che qualcosa non andava perché la mattina dopo la strada per tornare alla centrale era chiusa, e il pullmino non era venuto a prenderci. I telefoni non funzionavano. L’ultimo battello veloce per Kiev salpò quella mattina con i più furbi».
La flotta di Prypjet e Chernobyl è un’altro piccolo scandalo di questo mondo parallelo, dal quale le guide provano a tenerti distante: c’erano decine di barche di ferro, alcune sono lì arrugginite e affondate. «Le altre le hanno fatte sparire», racconta un liquidatore. Quando ci avviciniamo all’acqua del fiume, il dosimetro ci urla di cambiare strada. La radioattività lì è alta, quel metallo non avrebbe mai dovuto lasciare il suo cimitero.
«Salimmo sui tetti – continua Tamara – per vedere quella luce stranissima sulla centrale. Il 26 e il 27 trascorsero senza notizie. Per non farci preoccupare, riempirono i negozi di merce. A quell’epoca erano sempre vuoti, e invece eccoti le pellicce, i salami… Il terzo giorno ci dissero di prepararci per una prova di evacuazione: prendete solo il passaporto e cibo per tre giorni, dissero. I tre giorni durarono sei mesi». Adesso Tamara rivernicia casa di mamma a Opacici, uno dei villaggi fantasma in Zona 2. Sua mamma è morta l’anno scorso a 96 anni, tutti vissuti qui tra ortaggi e solidarietà: i liquidatori vengono in visita, chi porta un pacco di pasta, chi una pagnotta. Il dosimetro tace, ma qua e là si ravviva. Nella Zona la media non esiste. Fai un passo e hai meno radiattività che a Kiev, ne fai un altro e balza alle stelle; ti avvicini al terreno e va tutto bene, ti sposti di un metro e trilla. Per questo la zona di esclusione doveva escludere gli umani: la natura rigogliosa promette ortaggi meravigliosi ma una zucchina è sana e una è veleno, e ogni volta che tira vento la mappa si sposta.
Poi capita che incontri quella meraviglia di Baba Marussja, che ha 89 anni e spalanca gli occhioni blu mentre cura i suoi tulipani nell’orto come fa da quand’era bimba. Per lei la centrale è come se non fosse mai esplosa. «Mi hanno evacuata per sei mesi, ma sono tornata subito a casa e non me ne sono più andata». Baba Marussja, ma quand’è che ha visto un dottore l’ultima volta? Lei se la ride con i tre denti che le sono rimasti, con la dignità e la forza di questa terra povera e orgogliosa violata dalla corsa all’energia atomica: «Nel 1958, quando ho partorito!».
Mica va sempre così, purtroppo. Claudia Voroniets, maestra elementare e liquidatrice bielorussa, è infuriata con il governo che non dette le informazioni che avrebbero salvato tanti suoi studenti, e forse ora non dovrebbe pregare per sua figlia che l’anno scorso è stata operata per la seconda volta di tumore. «Eravamo nel villaggio di Ostrogladi, e il 26 aprile e i giorni successivi ci godemmo quel sole e quel caldo così inusiale, e quella pioggia con cui lavammo i bambini visto che non avevamo l’acqua corrente ». Quel nemico subdolo e invisibile va dove gli pare, e in quei giorni gli parve di andare soprattutto a nord, verso la Bielorussia. Il confine è a pochi chilometri da Chernobyl.
Il dosimetro dice che è ora di andare. In sei ore a zonzo nella Zona abbiamo assorbito le radiazioni di un lungo viaggio intercontinentale, ci dicono. Uscendo da zona 1 e zona 2 si passa il controllo: un rilevatore ti lascia passare solo se sei “pulito”, altrimenti dovrai essere decontaminato. Avremo esagerato? Sospiro di sollievo: la porta si apre.


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