SE CALA LA SPERANZA DI VITA

SE CALA LA SPERANZA DI VITA

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IL PROGRESSIVO innalzamento delle speranze di vita che aveva caratterizzato gli ultimi cinquant’anni sembra essersi arrestato. Per la prima volta in oltre mezzo secolo, il 2015 in Italia ha segnato una battuta d’arresto rispetto all’anno precedente. Ciò può essere in parte ricondotto all’eccesso di mortalità che ha caratterizzato, appunto, il 2015 (non solo in Italia, ma anche in Spagna, Francia e Inghilterra), su cui ancora si interrogano gli esperti. Ma non credo sia una spiegazione sufficiente. Occorrerà vedere se si tratta di un fenomeno passeggero, o di una tendenza che continua. In ogni caso, è un fenomeno che va osservato con qualche preoccupazione.

È vero che non si può pensare di innalzare all’infinito le speranze di vita e che l’Italia è già tra i Paesi in cui sono più elevate e con un sistema sanitario pubblico mediamente buono. Tuttavia ci sono ancora possibilità di miglioramento, specie per quanto riguarda le speranze di vita in buona salute. Invece, proprio qui il sistema italiano mostra di perdere colpi. Come segnala il Rapporto dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane presentato ieri, la crisi economica e le politiche di austerità, incidendo sia sul bilancio pubblico dedicato alla salute, sia sui bilanci privati, hanno ridotto le politiche di prevenzione (cui l’Italia dedica meno risorse degli altri Paesi europei), allungato i tempi di attesa, ridotto le possibilità di surrogare con risorse private le lentezze e carenze del pubblico. Chi non ha i mezzi, quindi, trascura di più la propria salute, fa meno prevenzione e riceve le cure necessarie in ritardo. Ciò appare più evidente nelle regioni, quelle meridionali, in cui il sistema sanitario pubblico è più debole e le difficoltà economiche e la povertà più diffuse.

Secondo il Rapporto, anche i Lea, i livelli essenziali di assistenza che dovrebbero essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, di fatto non lo sono, ed a maggior ragione nelle regioni ancora alle prese con i piani di rientro. Il diritto alla salute, pur costituzionalmente fondato, rischia nei fatti di essere vanificato se viene fatto dipendere dal luogo in cui si vive e dalle risorse economiche private. Questi dati appaiono ancora più problematici se si considera che le disuguaglianze sociali si riflettono, o traducono, in disuguaglianze nella salute e nelle chance di sopravvivenza.

L’Istat ha pubblicato qualche settimana fa per la prima volta i dati sulle speranze di vita per livello di istruzione. Chi ha un livello di istruzione più alto vive (quindi ha anche la possibilità di godersi la pensione) più a lungo. Lo scarto nelle speranze di vita alla nascita è maggiore tra gli uomini che tra le donne, probabilmente perché tra i primi, almeno nelle generazioni anziane attuali, contano di più le differenze nel tipo di occupazione svolta.

Nel 2012, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, la differenza tra le speranze di vita (alla nascita) di un laureato e di un uomo con la sola licenza elementare era di 5.2 anni a favore del primo. Tra le donne era di “soli” 2,7 anni. Le differenze permangono lungo tutto il ciclo di vita: un laureato e una laureata di 65 anni potevano aspettarsi di vivere rispettivamente 2,2 e 1,3 anni più a lungo di coetanei dello stesso sesso con la licenza elementare. Stili di vita più sani, ambiti di vita e lavoro più salubri e stimolanti concorrono a dar vita a queste differenze.

A maggior ragione sarebbe importante sia un’opera di prevenzione diffusa e particolarmente attenta a queste disuguaglianze, sia un servizio sanitario che non lasci scoperti proprio coloro che sono in condizione di maggior svantaggio. Accanto al controllo sull’abuso di prescrizioni di medicinali e esami, bisognerà preoccuparsi dei mancati, o troppo ritardati, accessi alla prevenzione e alla cura.



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