Francesco dei migranti

by Mariano Giustino, il manifesto | 16 Aprile 2016 10:46

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Il papa oggi nell’isola diventata la Lampedusa greca, dove sono stati sgombrati i campi autogestiti e l’hotspot sembra un carcere con garitte e fili spinati, vietato alla stampa

LESBO Papa Francesco questa mattina arriva a Lesbo in segno concreto di vicinanza a migranti e rifugiati. Appare, il suo, un gesto che interpella le coscienze degli europei e della comunità internazionale su questa immane tragedia umanitaria. Ancora una volta l’obiettivo è vincere quell’«indifferenza nemica della pace» che tante volte Bergoglio ha denunciato». «Certe guerre, a volte si ricordano solo quando bussano alla porta di casa», parole sue.

Dopo un breve incontro privato all’aeroporto di Mitilene con il primo ministro greco Alexis Tsipras, assieme al patriarca ecumenico Bartolomeo, e all’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Ieronymos, sarà accolto da 3.060 rifugiati nel campo principale di Moria.

Questo campo, prima dell’accordo tra Ankara e Bruxelles sul rinvio in Turchia dei profughi che saranno giunti sulle isole greche a partire dal 20 marzo scorso, era un centro dove i migranti venivano identificati che poi trasferiti sulle navi per essere portati ad Atene e di lì avrebbero potuto proseguire il loro viaggio in Europa.

Adesso questa struttura è diventata un vero e proprio centro di detenzione, con un doppio muro di cinta sormontato da filo spinato e torrette di guardia sorvegliate da soldati. Ai cancelli d’ingresso chiedendo informazioni per poter visitare la struttura un funzionario risponde: «Forbidden!», vietato, in tedesco.

I media non possono entrare nel campo di Moria, sottoposto a forti restrizioni, e i numerosi volontari presenti sull’isola sono testimoni dell’impatto devastante che l’accordo tra Ue e Turchia sta avendo su uomini, donne e bambini che versano in condizioni di grande vulnerabilità: detenuti, secondo loro, in modo arbitrario.

Amnesty international denuncia che è necessario e urgente «cambiare questo stato di cose che rappresenta una vergogna per l’Europa». I rifugiati, secondo questa organizzazione umanitaria, sono tenuti in condizioni agghiaccianti. La struttura è sovraffollata, i servizi essenziali sono carenti, i migranti lasciati senza notizie sul loro destino, angosciati circa il futuro che li attende. Molti ignorano la procedura da seguire per la richiesta d’asilo e temono di essere ricacciati in Turchia.

Afgani e pachistani, considerati «migranti economici», scappati con le loro famiglie dall’orrore della violenza fondamentalista, temono il ritorno forzato verso i paesi di origine.

Lo scorso ottobre, sulla stessa collina dove sorge la struttura principale di Moria, era nato un campo di transito interamente autogestito da volontari provenienti da diversi paesi del mondo, denominato «Better days for Moria» (Giorni migliori per Moria) e immerso in una sconfinata distesa di ulivi.

Si era formato un comitato internazionale che provvedeva 24 ore al giorno alle esigenze di base dei rifugiati per sopperire alle carenze della struttura principale. In questo campo erano attivi fino a poche settimane fa una mensa, un’area di gioco per i bambini, un punto di primo soccorso e una moschea. A distanza di due mesi, tornando in questo luogo, si trovano solo alcuni volontari, il campo ormai deserto, la struttura non più esistente. I volontari spiegano che dopo il 20 marzo tutti i migranti sono stati trasferiti nel campo principale.

La struttura di Moria è dunque al collasso, come raccontano alcuni rifugiati pachistani usciti di lì pochi giorni fa e incontrati al porto nel campo di «No Border Kitchen», allestito da un altro gruppo di attivisti internazionali. Nabil, fuggito in Turchia da Lahore e giunto a Lesbo tre settimane fa su un gommone con a bordo 65 rifugiati, suoi connazionali, racconta che le condizioni a Moria si sono gravemente deteriorate dopo il 20 marzo. Lì sono rinchiuse oltre 3 mila persone mentre la capacità massima serebbe di 1700 individui.

«Molti dormono all’addiaccio, i servizi igienici e l’offerta di cibo sono insufficienti. L’ansia e la frustrazione sono diffuse e crescenti», dice Nabil, aggiungendo: «Solo oggi un gruppo di pachistani ha interrotto uno sciopero della fame che durava da una settimana per chiedere che fossero distribuite a tutti adeguate razioni di cibo».

«Due miei amici, miei concittadini, si sono suicidati il 4 aprile, perché avevano appreso di essere tra coloro che sarebbero dovuti tornare in Turchia, per poi essere rimpatriati perché considerati migranti economici», racconta con le lacrime agli occhi. Ora l’unica speranza che qualcosa cambi, anche per lui, che gli accende lo sguardo è la notizia dell’arrivo del papa.

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