La decisione (senza chiamare Bolzano) che riapre le ferite di settant’anni fa

La decisione (senza chiamare Bolzano) che riapre le ferite di settant’anni fa

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Eccolo, il «confine di seta»: filo spinato. Così sarà il Brennero, dopo la costruzione iniziata ieri della barriera voluta per fermare l’eventuale arrivo di profughi. Non sarà solo un «muro» tra Nord e Sud, tra due pezzi dell’Europa, tra l’Italia e l’Austria. Sarà di più: la spaccatura del piccolo mondo tirolese. Un incubo antico reso reale non da Roma, ma da Vienna. Un trauma inatteso. Vissuto da molti come un tradimento.

«Sì, qualche volta ho ancora la sensazione di essere “prigioniero” dell’Italia», raccontava Silvius Magnago, il patriarca dei sudtirolesi, «capita quando passo la frontiera del Brennero. Avverto un certo disagio, come una fitta al cuore. Certo, se i confini fossero di seta così come forse saranno in futuro dentro l’Europa non mi capiterebbe, ma purtroppo così non è. E poi c’è sempre Roma, con le sue maledette tentazioni centralistiche».

Quelle «maledette tentazioni centralistiche» che per decenni furono rimproverate a noi, vengono rinfacciate ora a Vienna. Basti rileggere, al di là delle scontate prudenze diplomatiche, le parole dette due mesi fa dal presidente della Provincia autonoma Arno Kompatscher dopo la scoperta, sbalordita, della decisione austriaca di rafforzare il confine che da un secolo rappresenta una ferita. Decisione presa senza manco avvertire i «fratelli» altoatesini. Solo chi non conosce i traumi di queste terre non ha colto fino in fondo le parole di quello che per gli altoatesini tedeschi è un vero e proprio governatore: «Le decisioni austriache in tema di profughi, con particolare attenzione al confine del Brennero, hanno bisogno di adeguate risposte da parte dell’Italia». E chi avrebbe potuto mai immaginare che il leader della minoranza tedesca chiedesse aiuto a Roma? Eppure Kompatscher metteva l’accento sul punto centrale: «L’accordo di Schengen ha depotenziato il confine del Brennero rendendolo di fatto invisibile e ha dato un grande contributo alla convivenza all’interno di un territorio dalla storia complessa. La gestione dell’emergenza profughi rischia di minare i rapporti».

«Eva Klotz, gli Schutzen o i fanatici Freiheitlichen pensano di avere la soluzione in tasca e rovesciano tutta la colpa, come sempre, sull’Italia — spiega lo storico Leopold Steurer —. Dicono: se avessimo fatto un referendum sull’autodeterminazione oggi non avremmo problemi perché staremmo dalla parte giusta del filo spinato. Non so se mi spiego: “dalla parte giusta del filo spinato”. È una posizione infame. Razzista. Degna di gentaglia come sono loro».

Certo è che per i sudtirolesi, che avevano accolto come una liberazione la caduta di ogni barriera con la loro «heimat», il dispiegamento della nuova muraglia, che dovrebbe somigliare a quella stesa dall’Austria lungo i confini con la Slovenia, è un salto indietro di decenni. Che rischia di riaprire ferite antiche. E di ricordare non solo il distacco fisico dall’Austria ma lo shock subito da quelle decine di migliaia di tedeschi altoatesini che nel 1939, obbligati dal patto scellerato stretto da Mussolini e Hitler a optare per il trasferimento in Austria e in Germania si ritrovarono accolti non con l’amore dovuto ai fratelli ma con la diffidenza riservata agli intrusi. «Ce ne andammo con tutta la famiglia», ricordava mezzo secolo dopo Egon Tauber, «ci mandarono sul lago di Costanza e ci diedero un appartamentino in una casa popolare. C’erano parecchi sudtirolesi. La gente del paese era invidiosa, perché davano le case a noi. Ci chiamavano terroni e ci trattavano come fossimo turchi». Uno shock mai del tutto superato.

C’erano cascati in 211.799 su un totale di 246.036, pari all’86 per cento della popolazione tedesca, nella promessa del Führer di garantire agli «optanti» che avrebbero trovato nelle terre tedesche esattamente ciò che lasciavano in Val Pusteria, in Val Venosta o in Val Passiria. Al punto che Friedl Volgger, futuro leader della Svp e tenace oppositore dell’esodo, indicò allora col dito a un vecchio amico il Felsberg, la montagna simbolo della Val d’Isarco: «Ammetterai almeno che in questa nuova patria ti mancherà il Felsberg». E quello rispose: «No, ci sarà anche quella. Solo 200 metri più bassa». Assicurando di aver avuto ogni garanzia: nel Terzo Reich i sudtirolesi avrebbero trovato paesi identici a quelli lasciati. Copie perfette: stesse strade, stesse piazze, stessi lampioni…

«La propaganda nazista fu così martellante che la gente abboccava alle promesse più assurde», ricordò anni fa lo stesso Steurer, «so che pare impossibile, ma la gente ci credeva. Altroché, se ci credeva: pensi che mio padre, in fondo alla lista con le vacche e le credenze e i comodini, chiese addirittura di ritrovare nella nuova casa sette rastrelli, quattro oche e tre gatti». Altri ancora, sorrise lo storico, arrivavano a precisare nella loro lista di che colore dovessero essere le vacche uguali identiche a quelle lasciate.

Il confine al Brennero era allora per i sudtirolesi, amputati dalla madrepatria, un sopruso così doloroso da togliere il fiato. Non riuscivano a darsi pace per le scelte durissime imposte dall’Italia a quelle valli citate nel celebre proclama di Armando Diaz del 4 novembre 1918: «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza».

Le scuole solo in italiano, i nomi cambiati qua e là perfino sulle lapidi dei cimiteri, il divieto di parlare in tedesco, lo stravolgimento della toponomastica nella scia delle tesi di Ettore Tolomei, fervente apostolo della necessità di «italianizzare» l’Alto Adige. Risultato: Chiusa al posto di Klausen, Selva di Val Gardena invece di Wolkenstein in Gröden e così via fino a Gallina alla Malga in luogo di Hühnerspiel.

Decenni di trattative, di negoziati sul cosiddetto «pacchetto», di buon senso da parte sia degli italiani sia dei sudtirolesi erano riusciti a rimarginare almeno in parte quelle ferite. L’Europa aveva fatto il resto. Finché anche la barriera del Brennero era diventata quasi una barriera impalpabile. I muri, i reticolati, i fili spinati riportano la storia indietro. Ma ciò che più pesa, come spiegano a Bolzano, è che «l’Austria non ha neppure sentito l’obbligo morale di sentirci».

Gian Antonio Stella



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