La nonna candidata al Nobel “L’Europa imiti noi di Lesbo ”

by ETTORE LIVINI, la Repubblica | 19 Aprile 2016 12:47

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LESBO «Si accomodi e aspetti un attimo, metto via la tempera e arrivo». Emilia Kamvysi, all’alba degli 85 anni, non sa stare con le mani in mano. Gli ultimi dieci mesi li ha passati sotto il platano in riva al mare a Skala Sykameneas ad accogliere i profughi in arrivo dalla Turchia «per dar loro una coperta, un po’ di formaggio o anche solo un abbraccio». Una foto scattata mentre allatta con il biberon un piccolissimo rifugiato appena strappato dall’Egeo le ha meritato la candidatura al Premio Nobel. E ora che qui a Lesbo gli sbarchi sono finiti («per noi è un gran sollievo»), sta imbiancando la casa per la Pasqua ortodossa.

Ci racconti di quel giorno con il bambino Emilia… «Era un pomeriggio grigio. È arrivato l’ennesimo gommone in spiaggia, la mamma e il piccolo erano fradici. Le ho detto di passarmelo e di correre a farsi dare vestiti asciutti e lui si è messo a piangere. Siamo state mamme anche noi. La mia amica Maritsa è corsa a prendere un po’ di latte e a scaldarlo nel biberon. Era bollente e il bebè non lo voleva bere. L’ho raffreddato in mare e lui l’ha finito in un attimo! Quando ha visto la madre che tornava, ha fatto un sorriso felice che non dimenticherò mai».

Li ha più incontrati?

«Non so chi fossero né dove sono finiti. Pochi minuti dopo sono saliti su un autobus e partiti verso Mitilene».

Se l’aspettava la candidatura al Nobel?

«No. Io mi sono solo comportata da essere umano. Quando arriva una barca – e lo scorso inverno erano centinaia al giorno – non ti domandi se i migranti e i loro figli hanno i documenti a posto, da dove arrivano e perché. Pensi ai tuoi nipoti della loro età e anche se hai 85 anni e cammini con il bastone fai quello che puoi per dare una mano».

L’accordo con la Turchia ha bloccato gli sbarchi. Che ne pensa?

«Hanno solo spostato il problema. Va fermata la guerra in Siria. L’Europa deve aprire le porte e non chiuderle. Mia mamma e quella di Maritsa hanno fatto la stessa traversata un secolo fa, fuggendo da Smirne su una barca da pesca di legno affollata come i gommoni di oggi. Ho nella testa i loro racconti: le campane che suonano a martello, il rumore dell’esercito turco che si avvicina. Lei è scappata portando solo quello che aveva addosso, senza nemmeno fare a tempo a vestire l’ultimo dei suoi tre figli».

Il momento di questi mesi che si porta nel cuore?

«Una delle mattine più brutte: il mare in burrasca, una barca affondata a pochi metri dalla riva. Una donna è riuscita per miracolo a trascinarsi a terra. Io ero lì e mi è caduta tra le braccia in un lungo pianto disperato. Ho pensato a mia madre sulla stessa spiaggia, tanti anni prima. In quel momento mi è parso di abbracciare anche lei».

 

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