Istruiti, pagati poco e sempre on line mezzo milione di proletari digitali

by ROBERTO MANIA e FILIPPO SANTELLI, la Repubblica | 1 Maggio 2016 17:37

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Operai on line. Nella fabbrica virtuale che produce applicazioni, siti web, blog aziendali, social network ci sono loro: i nuovi precari. La massa dei lavoratori della conoscenza, gli animatori dell’economia digitale, i motori invisibili dell’ultima rivoluzione tecnologica, quella che nell’arco di un paio di decenni spazzerà via quasi la metà degli attuali posti di lavoro, manuali e intellettuali. Prodromo della società senza lavoro, la “jobless society” con i robot a sostituire gli umani. Sono almeno mezzo milione, in Italia, i lavoratori del digitale, di questa fabbrica che non chiude mai, senza però essere in Cina. Una catena di montaggio immateriale. Quegli operai sono un ibrido tra dipendenti e autonomi, spesso pagati male, sfruttatiperfino se si pensa che lavorano perlopiù senza orario, tutele, diritti o contratti. Flexinsecurity, si chiama. Certo, ci sono i freelance che rivendicano con orgoglio la propria indipendenza nella consulenza e la propria forza sul mercato. Questi sì che hanno prestigio e identità. Ma sono pochi. La maggior parte si sente costretta ad essere freelance, vulnerabile, ricattabile dal committente, in genere unico. Si riconosce precaria, tra contratti di collaborazione, false partite Iva e ora anche i maledettissimi voucher. Perché i precari — come ha ben spiegato Guy Standing nel suo

Precari. La nuova classe esplosiva,
pubblicato in Italia da Mulino — «sono una classe in divenire ». Che si allarga sempre più: dalle basse professionalità a quelle più alte. D’altra parte — ha scritto il sociologo Aris Accornero — la «vera anomalia » italiana risiede nella «concentrazione dei lavori precari tra i giovani più istruiti».
800 EURO AL MESE
Domenico Monaco, 29 anni, iscritto al corso di laurea specialistica in Teoria e tecnologia dell’informazione alla Bicocca di Milano, parla di «carpenteria digitale»: dieci, dodici ore al giorno davanti al computer. Lo racconta così il suo percorso professionale: «Per un anno ho programmato per una piccola agenzia di siti web e app. Arrivava un cliente e si accettava il lavoro, se non c’erano le competenze bisognava inventarsele. Ottocento euro al mese, in teoria come consulente esterno, in realtà inchiodato alla sedia dalle 9 alle 19. Poi una esperienza da freelance, ce la fai solo se ti fai un nome. E allora meglio specializzarsi e puntare a un lavoro in azienda. La laurea aiuta a entrare in un’impresa con un grado più alto, perché poi salire di livello è difficile ». Obiettivo posto fisso, insomma. Ed è vero che la laurea aiuta, soprattutto quella in Informatica: a cinque anni dal titolo è occupato — dati di Almalaurea — il 94,2 per cento, con una retribuzione media netta di 1.564 euro. Nessun’altra laurea fa meglio.
LA GIUNGLA DIGITALE
Anche Camilla B., 33 anni, laurea a Modena in Economia e sistemi complessi, da cinque anni a Milano,
Secondo la Commissione europea nel 2020 in Italia mancheranno 200 mila esperti Ict
cercava un posto fisso. Poi si è «riciclata» in promoter di un gruppo di telecomunicazioni e ora nel marketing digitale. «Non si stacca mai», spiega. «I miei strumenti da lavoro sono gli stessi che uso nella vita privata. Tutto il giorno, e tutti i giorni, sono dentro il mio impiego. Faccio fatica a dare valore al mio lavoro senza punti di riferimento, minimi contrattuali o tariffari. Ho accetto il patto con il diavolo: un fisso mensile come partita Iva in una agenzia di pubblicità. Ma è una giungla». La giungla digitale. «Le aziende, specie quelle medie e piccole, vorrebbero avere un tuttologo, un informatico generalista, quello che una volta si chiamava web master, e affidare tutto il lavoro a lui, anche per spendere di meno », spiega Roberto Scano, 41 anni, che nel consorzio Uni, di cui presiede la sezione Ict, ha promosso una classificazione normativa di 25 profili professionali legati al web. «Oggi sono spesso inquadrati come metalmeccanici, che è anche un contratto buono, ma che non valorizza, anche economicamente, le conoscenze. Dall’altra parte anche tra i professionisti c’è una tendenza a sottovalutare le proprie competenze, facendo corse al ribasso per piccole commesse, come il sito del negozio sotto casa».
LE ASTE AL RIBASSO
Questo è il mondo delle piccole, piccolissime imprese (la stragrande maggioranza non arriva a dieci dipendenti), di una lunga filiera di appalti e subappalti che taglia fuori il sindacato, come ammette Claudio Treves, segretario generale di Nidil- Cgil. «E i lavoratori digitali finiscono per essere le vittime della teoria del presunto conflitto tra lavoratori insider e outsider». Lavoratori senza tutele. Lo Statuto del lavoro autonomo è fermo in Parlamento. Accanto alla proposta del governo c’è quella dell’ex ministro Maurizio Sacconi che propone il superamento della divisione tra lavoro subordinato e autonomo. Lavoratori — ancora — senza intermediazione tra sé e il committente. Ormai le aziende postano un’offerta nelle freelance community e aprono la gara. Al ribasso. Su Freelancer, una delle piattaforme leader, una società francese chiede di completare il proprio sito web, aggiungendo una serie di funzioni, budget tra i 250 e i 750 euro. Ci sono già 34 offerte, molte al prezzo più basso. Un ragazzo indiano garantisce di poterlo fare in 5 giorni, uno indonesiano in due, entrambi hanno un 4,9 stelline su cinque. Altro che #nofreejobs, il movimento lanciato da Cristina Simone, 33 anni, partita Iva, esperta di comunicazione e marketing sul web, in particolare sui social media. «La giungla continuerà sempre — sostiene — perché il web è associato a qualcosa di gratuito».
CERCASI 200 MILA ADDETTI
Eppure le aziende hanno bisogno di professionalità digitali. Nel 2020, secondo la Commissione europea, mancheranno in Italia almeno 200 mila lavoratori Ict. «Responsabilità di un’intera classe dirigente, compresi gli imprenditori, che della rivoluzione digitale ha colto solo l’aspetto tecnologico e non anche la trasformazione che sotto il profilo della strategica economica portava con sé», dice Elio Catania, presidente di Confindustria Digitale che ha lanciato un piano per colmare nell’arco di un biennio il gap competitivo agendo su tre fattori: imprese, scuola, lavoro. Ma servirà ad uscire dalla giungla digitale?
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