Giorgio Agamben ha scritto un bellissimo libro. I suoi libri sono sempre densi e tersi (e imprevedibili come quello dedicato recentemente a Pulcinella, edizioni Nottetempo). Hanno lo sguardo rivolto al passato remoto. È il solo modo per intensificare il presente. Prendete il suo ultimo lavoro Che cos’è la filosofia? (edito da Quodlibet), cosa nasconde una domanda apparentemente ovvia? «È mia convinzione» – dice Agamben – «che la filosofia non sia una disciplina, di cui sia possibile definire l’oggetto e i confini (come provò a fare Deleuze) o, come avviene nelle università, pretendere di tracciare la storia lineare e magari progressiva. La filosofia non è una sostanza, ma un’intensità che può di colpo animare qualunque ambito: l’arte, la religione, l’economia, la poesia, il desiderio, l’amore, persino la noia. Assomiglia più a qualcosa come il vento o le nuvole o una tempesta: come queste, si produce all’improvviso, scuote, trasforma e perfino distrugge il luogo in cui si è prodotta, ma altrettanto imprevedibilmente passa e scompare».
Offri un’immagine volatile della filosofia.
«Ho l’abitudine di dividere l’ambito dell’esperienza in due grandi categorie: le sostanze da una parte e, dall’altra, l’intensità. Di una sostanza si possono disegnare i confini, definire i temi e l’oggetto, tracciare la cartografia; l’intensità invece non ha un luogo proprio».
Può verificarsi ovunque?
«La filosofia, il pensiero è, in questo senso, un’intensità che può tendere, animare e percorrere ogni ambito. Essa condivide questo carattere tensivo con la politica. Anche la politica è un’intensità, anche la politica, contrariamente a quello che ritengono i politologi, non ha un luogo proprio: com’è evidente non soltanto nella storia recente, di colpo la religione, l’economia, perfino l’estetica possono acquisire una decisiva intensità politica, diventare occasione di inimicizia e di guerra. Va da sé che le intensità sono più interessanti delle sostanze. Se le sostanze e le discipline – come la vita, del resto – rimangono inerti, se non raggiungono una certa intensità, esse decadono a pratiche burocratiche».
Un antidoto allo scadere nella pratica burocratica può essere la poesia. Tu hai spesso ribadito il legame tra filosofia e poesia. Che lo stesso Heidegger pose al centro della sua riflessione. In cosa consiste questo legame?
«Ho sempre pensato che filosofia e poesia non siano due sostanze separate, ma due intensità che tendono l’unico campo del linguaggio in due direzioni opposte: il puro senso e il puro suono. Non c’è poesia senza pensiero, così come non c’è pensiero senza un momento poetico. In questo senso, Hölderlin e Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di Benjamin sono pura poesia. Se si dividono drasticamente i due campi, io stesso non saprei da che parte mettermi».
Nella tua biografia intellettuale c’è una laurea in giurisprudenza, ma con una tesi piuttosto insolita dedicata a Simone Weil. Come è nata questa scelta?
«Scoprii Simone Weil a Parigi nel 1963 o ’64, comprando per caso la prima edizione dei Cahiers nella libreria Tschann a Montparnasse. Ne rimasi così abbagliato che appena tornato a Roma li feci leggere a Elsa Morante che ne fu conquistata. E immediatamente decisi che avrei dedicato al pensiero politico della Weil la mia tesi di laurea in filosofia del diritto. Allora in Italia il suo pensiero era quasi sconosciuto e io ne sapevo molto più dei relatori con cui dovevo laurearmi».
Cosa ti colpì del suo pensiero?
«In modo particolare la critica delle nozioni di persona e di diritto che la Weil svolge in La personne et le sacré.
Fu a partire da questa critica che lessi il saggio di Marcel Mauss sulla nozione di persona e mi apparve chiaro il nesso che congiunge intimamente la persona giuridica e la maschera teatrale e poi teologica dell’individuo moderno. Forse la critica del diritto che non ho mai abbandonato a partire dal primo volume di Homo sacer, ha nel saggio della Weil la sua prima radice».
Un’altra radice nella costruzione del tuo pensiero è stata Walter Benjamin.
«Ci sono nella vita degli eventi e degli incontri che sono troppo grandi per poter avvenire una volta per tutte. Essi, per così dire, non cessano di accompagnarci. L’incontro con Benjamin – come quello con Heidegger a Le Thor – sono di questo tipo. Come i teologi dicono che Dio continua a creare il mondo in ogni istante, così questi incontri sono sempre in corso. Il debito che ho con Benjamin è incalcolabile».
Debito è una parola intensiva.
«Basti qui accennare solo a un problema di metodo. È lui che mi ha insegnato a estrarre a forza dal suo contesto storico apparentemente remoto un determinato fenomeno per restituirgli vita e farlo agire nel presente. Senza di questo, le mie incursioni in campi così diversi come la teologia e il diritto, la politica e la letteratura, non sarebbero state possibili. Quando si frequenta così intensamente un autore, si producono dei fenomeni che sembrano quasi magici, ma che sono solo il frutto di quell’intimità. Così mi è capitato per il ritrovamento di manoscritti di Benjamin, prima a Roma in casa di un suo amico di gioventù e poi nella Biblioteca Nazionale di Parigi (i manoscritti del libro su Baudelaire a cui Benjaminlavorava negli ultimi anni della sua vita)».
Negli ultimi anni si è accentuato il tuo richiamo alla “biopolitica”. È un concetto che deve molto a Michel Foucault?
«Certamente. Ma altrettanto importante per me è stato il problema del metodo in Foucault, cioè l’archeologia. Sono convinto che la sola via di accesso al presente sia oggi l’indagine del passato, l’archeologia. A condizione di precisare, come fa Foucault, che le ricerche archeologiche non sono che l’ombra che l’interrogazione del presente proietta sul passato. Nel mio caso quest’ombra è spesso più lunga di quella che inseguiva Foucault e investe dei campi, come la teologia e il diritto, che Foucault ha poco frequentato. I risultati delle mie ricerche potranno certamente essere contestati, ma spero almeno che le indagini puramente archeologiche che ho svolto in Stato di eccezione, Il regno e la gloria o nel libro sul giuramento aiutino a capire il tempo in cui viviamo».
Un altro pensatore che ha aiutato a capire il tempo in cui viviamo fu Guy Debord con il suo libro “La società dello spettacolo”, un testo che ancora oggi ci aiuta a comprendere il nostro presente.
«Lo lessi l’anno stesso della sua pubblicazione, il 1967. Con Guy diventammo amici molti anni dopo, alla fine degli anni Ottanta. Ma ricordo, sia al momento della prima lettura come nelle nostre conversazioni, il respiro di sollievo vedendo come la sua mente fosse assolutamente libera dai pregiudizi ideologici che avevano compromesso le sorti dei movimenti. Nel Sessantotto e negli anni successivi gli amici dei movimenti che frequentavo si proclamavano senza dubbi né vergogna e con un’assoluta abdicazione della facoltà di pensare, “maoisti” “trotskisti” e via dicendo. Io e Guy eravamo arrivati alla stessa lucidità, lui a partire dalla tradizione delle avanguardie artistiche da cui proveniva, io dalla poesia e dalla filosofia».
«Malgrado quell’affermazione che citi, non penso che ci fosse in lui alcun conflitto fra il filosofo e lo stratega. La filosofia implica sempre un problema di strategia perché, anche se cerca l’eterno, può farlo solo attraverso un confronto con il suo tempo».
Negli anni in cui hai vissuto a Parigi vedevi spesso Italo Calvino. Come fu il rapporto con lui, con le sue geometrie illuminanti?
«Accanto al nome di Calvino, vorrei mettere quello di Claudio Rugafiori che, con Italo, vedevo spesso in quegli anni, perché lavoravamo insieme a un progetto di una rivista che non andò mai in porto. Il tentativo era di definire quelle che chiamavamo tra noi le “categorie italiane”, delle coppie di concetti attraverso le quali cercavamo di definire le strutture portanti della cultura italiana: “architettura/vaghezza”, “tragedia/ commedia”, “rapidità/leggerezza”, quest’ultima la si può ritrovare testualmente nelle Lezioni americane di Italo. Ero affascinato dal modo in cui lavoravano la mente di Italo e quella di Claudio».
Cosa ti seduceva?
«Il fatto che fossero due forme di pensiero puramente analogico, che percepiva somiglianze e corrispondenze là dove nessun altro avrebbe saputo trovarle. L’analogia è una forma di conoscenza che la nostra cultura ha respinto sempre più ai margini. Quanto all’idea di un Calvino geometrico e scientista credo vada corretta. La sua era piuttosto una straordinaria forma di immaginazione analogica, una sorta di istinto fisiognomico che gli permetteva di ridisegnare ogni volta la geografia del sapere letterario».
Accennavi all’inizio alla tua amicizia con Elsa Morante. Come fu il rapporto con una donna dal carattere così complesso?
«L’incontro e l’amicizia con Elsa sono stati per me in ogni senso decisivi. Una volta Calvino mi ha detto che era possibile frequentare Elsa solo all’interno di un culto. Era forse vero, ma a condizione di precisare che l’oggetto del culto non era Elsa, ma quegli dèi – da Rimbaud a Simone Weil, da Mozart a Spinoza – che essa riconosceva e amava condividere con gli amici. In questo Elsa era seria, selvaggiamente seria, e credo che abbia trasmesso al ragazzo che ero, un po’ di quella sua intransigente passione per la poesia e per la verità. E da allora che penso che non si possano tracciare confini chiari fra la letteratura e la filosofia ».
So che attraverso la Morante hai conosciuto Pasolini. Tra l’altro partecipasti in un ruolo piccolo ma bello al suo “Vangelo”.
Che ricordo hai di quell’esperienza sul set?
«Del Vangelo ricordo la velocità: Pasolini non faceva quasi mai ripetere una scena e ciascuno parlava e si muoveva come gli pareva. Credo che questo dia al suo cinema quella naturalezza che non pretende mai di essere realistica. La sola lunga pausa durante le riprese fu colpa mia: nell’Ultima Cena mi trovai davanti sul tavolo delle enormi pagnotte lievitate e dovetti ricordare a Pier Paolo che per la pasqua ebraica il pane doveva essere azzimo».
Hai anche accennato ai tuoi rapporti con Heidegger e ai seminari che seguisti con lui a Le Thor nel 1966 e poi nel 1968. Cosa ti è restato di quegli incontri?
«L’incontro con Heidegger, come quello con Benjamin, non è mai finito. Nella mia memoria è inseparabile dal paesaggio della Provenza, allora ancora non toccato dal turismo. Il seminario aveva luogo la mattina, nel giardino del piccolo albergo che ci ospitava, ma a volte in una capanna durante una delle numerose escursioni nella campagna circostante. Il primo anno eravamo cinque in tutto, oltre al seminario c’erano i pasti in comune e io ne approfittavo per porre a Heidegger le domande che più mi interessavano, se aveva letto Kafka, se conosceva Benjamin. Ma questi sono solo aneddoti».
Uno degli aspetti principali della tua ricerca è stata la filologia. In che modo l’hai praticata?
«La filologia è stata sempre parte essenziale della mia ricerca. E non solo perché mi è capitato di fare lavori filologici in senso tecnico – penso alla ricostruzione del libro di Benjamin su Baudelaire e all’edizione delle poesie postume di Caproni – ma perché filologia e filosofia, amore per la parola e amore per la verità non possono in alcun modo essere separati. La verità dimora nella lingua e un filosofo che non avesse cura di questa dimora sarebbe un cattivo filosofo. I filosofi, come i poeti, sono innanzitutto i custodi della lingua e questo è un compito genuinamente politico, soprattutto in un’epoca, com’è la nostra, che cerca con ogni mezzo di confondere e falsificare il significato delle parole».
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