E Gabo tornò a casa

E Gabo tornò a casa

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GABITO, SUO FRATELLO JAIME lo ha sempre chiamato così, arrivò la prima volta a Cartagena de Indias con soltanto quello che aveva addosso. Fuggiva da Bogotà, dove la residenza per studenti nella quale viveva era stata incendiata durante la rivolta successiva all’assassinio del leader politico liberale, Jorge Eliécer Gaitán. «Bruciò tutto quello che avevo. I vestiti, i libri, la macchina da scrivere, e anche alcuni racconti che avevo scritto». Negli scontri, tra liberali e conservatori che in Colombia si ricordano come il “ Bogotazo”, ci furono tremila morti. Era l’aprile del 1948 e Gabriel García Márquez, che aveva ventuno anni e studiava legge, si rifugiò sulla costa dei Caraibi colombiani, nell’antica, fantasmagorica, ma ormai decaduta capitale latinoamericana di quello che fu l’Impero spagnolo. La prima notte dormì in prigione. Non trovò l’amico che doveva pagargli una stanza e all’hotel Suiza si rifiutarono di fargli credito. Così, racconta suo fratello Jaime, vagò affamato lungo le mura della città e infine tornò nel parco Bolivar dove s’accasciò a riposare su una panchina. Ma c’era il coprifuoco, e lo arrestarono. Nei giorni successivi fu più fortunato. Entrò all’università, trovò il primo impiego come «aiutante giornalista», pubblicò il primo articolo e confessò a suo padre che non voleva studiare legge ma fare lo scrittore. Si narra che l’episodio avvenne sotto la statua dell’indipendenza nel Camellón de los Martires, e che suo padre, il telegrafista , infuriato sentenziò: «Bene, da oggi mangerai carta».

Nella sua prima giovinezza, Gárcia Marquéz trascorse a Cartagena meno di due anni, fino al dicembre del ‘49, ma la sua relazione con questa città fu così peculiare che i luoghi, le architetture, i personaggi, e le leggende di Cartagena, rivivono in molti dei suoi romanzi. Così non è un caso che questa sia l’unica città colombiana dove, negli anni Novanta, si fece costruire una casa; che sia quella dove fondò la sua scuola di giornalismo; quella dove tornava sempre per il suo compleanno (6 marzo); e quella dove ha voluto, con la cerimonia che si svolgerà oggi nel Claustro dell’Università, che venissero conservate le sue ceneri.

La sede della scuola, la “Fondazione nuovo giornalismo latinoamericano” (Fnpi), sta nella stessa strada — San Juan de Dios — dove nel 1948 c’era l’Universal, il primo giornale nel quale lavorò. Lo stipendio all’Universal, un foglio d’opposizione strozzato dalla censura dell’epoca, era talmente misero che spesso, per non pagare la locanda, chiusa l’edizione prima dell’alba, Márquez s’addormentava in tipografia sui rotoloni di carta per la stampa. Ma qui conobbe un caporedattore, Clemente Zapata, che sempre ricorderà come decisivo nella sua formazione. Qui lesse Virginia Wolf e William Faulkner. E qui ambienterà quasi tutto il romanzo L’amore ai tempi del colera, che scrisse traendo ispirazione dalla storia dei suoi genitori. A quell’epoca García Márquez girava con un canovaccio — l’aveva intitolato La casa — del romanzo che diventerà Cent’anni di solitudine: la scena nella quale José Arcadio Buendia conosce il ghiaccio è ispirata a un mercato che, fino al 1978, stava dove oggi a Cartagena c’è il centro delle Convenzioni; il personaggio di Melquíades è ispirato a un mago, Blacaman, che conobbe nella Plaza de la Aduana; e la casa di piacere della Negra Eufemia — sempre nei Cent’anni — è sui bordelli di Cartagena che è modellata. E ancora. Il parco Bolivar è il luogo dell’incontro fra i due protagonisti sotto il Portico degli scrivani; poco più avanti c’è la Cattedrale dove Florentino Ariza consegna furtivamente la sua prima lettera d’amore a Fermina Daza; oppure il parco Fernandez de Madrid dove, nel libro, c’è la casa della famiglia di Fermina e dove Florentino la osserva mentre cammina come se fosse “immune alla gravità”.

Ma anche in altri romanzi di García Márquez ci sono luoghi di Cartagena. Ne Il generale nel suo labirinto (1989), c’è la Torre del Reloj con la porta attraverso la quale il libertador Simon Bolivar entra in città. In Dell’amore e altri demoni, pubblicato nel 1994, il mercato del Portal de los dulces è il luogo dove inizia la tragedia della protagonista, Sierva Maria, la bambina (morsa dal cane rabbioso) che verrà condannata dall’Inquisizione a vivere il resto della sua vita in un convento di clausura; monastero che Márquez ambienta in quello che fu il convento di Santa Clara, oggi trasformato in albergo. La casa del marchese di Baldeoyos, García Márquez la utilizzò invece sia come dimora del padre della bambina (nel romanzo si chiama marchese di Casalduero) che, ne Il generale nel suo labirinto, come casa dove si fermerà Bolivar prima di raggiungere Santa Marta. Tra gli aneddoti che ci racconta Jaime Márquez c’è anche quello secondo cui suo fratello Gabo sosteneva che «i portoni di Cartagena cambiano casa». Questo perché una sera una pittrice sua amica dipinse un Arlecchino sul portone di casa, ma quando García Márquez tornò a cercarlo con la luce del giorno non lo trovò più.

Gabito lasciò per la prima volta Cartagena de Indias alla fine del 1949. Ma la città, che era stata il più grande mercato di schiavi delle Americhe, sarebbe diventata qualche anno dopo teatro di un suo scoop giornalistico. Nel 1955, quando lavorava a El Espectador di Bogotà, tutta la Colombia si emozionò per il naufragio di una lancia della Marina con otto soldati a bordo. Soltanto uno di loro sopravvisse, dieci giorni alla deriva senza acqua né cibo. García Márquez andò a Cartagena per intervistarlo e scoprì una versione dei fatti molto diversa da quella ufficiale. La raccontò in quattordici reportage anonimi. Fu, allo stesso tempo, uno straordinario successo giornalistico e l’inizio del suo lungo esilio dalla Colombia. Prima in Europa, poi in Messico dove il 17 aprile di due anni fa morì. Oggi fa ritorno a Cartagena, e stavolta non la lascerà più.



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