Il «ragazzino radioattivo» che oggi fa il custode al Museo della Memoria
HIROSHIMA Il 6 agosto del 1945 un bambino di 11 anni si ritrovò solo al mondo in un lampo. Quello, accecante, della bomba sganciata dal bombardiere americano B-52 «Enola Gay». Suo padre e sua madre furono polverizzati all’istante, così come i suoi fratelli.
Sua sorella morì di leucemia 6 mesi dopo. La famiglia, la casa, la città cancellati in pochi secondi. Era un ragazzino abituato alle durezza di una guerra infinita. Ma ora si ritrova in una dimensione sconosciuta, colpito da un fulmine potente e misterioso: è «un orfano radioattivo» e presto scopre che nelle vie di Hiroshima ce ne sono tanti come lui.
Ragazzini che vagano senza che nessuno nemmeno li prenda per un braccio, li scuota: che fai in giro? Non ce l’hai un posto dove andare? No, non c’è un posto dove andare, non c’è un letto, non c’è una cucina, neanche una dispensa in cui trovare almeno un pezzo di pane. Qualcuno di loro comincia a inghiottire i fogli di giornale ammorbiditi nell’acqua; altri rosicchiano le radici, o addirittura le pietre. Nel frattempo la polizia, lo Stato è sparito: il Giappone autoritario e imperialista è evaporato. Nel vuoto politico e materiale di Hiroshima, ridotta a ceneri nucleari, ecco che emerge il potere di uomini violenti, determinati. Sono gli affiliati della Yakuza, la versione nipponica della mafia.
Quel ragazzino undicenne, randagio e affamato, attira l’attenzione di un boss locale che alla fine se lo prende in carico. Gli offre un letto, lo sfama e, soprattutto, lo mette al lavoro. Il clan si sta inserendo nei lavori per la ricostruzione degli edifici, delle fognature e ha bisogno di manodopera a qualsiasi livello. Vanno bene anche i bambini.
Passano gli anni e il giovane dipendente della Yakuza, a 23 anni, si innamora di una ragazza che vive in un villaggio sulle montagne intorno a Hiroshima. L’onda d’urto della bomba lì non è stata devastante come nella pianura. Si sono salvati in tanti e, dopo un po’, la vita è ripresa.
I due si conoscono, si frequentano: lei è pronta a sposarlo, ma al momento decisivo suo padre glielo proibisce. Perché è un mezzo mafioso? Ma no, chi se ne importa. No, quell’uomo è un «hibakusha», un essere radioattivo. Può essere malato, può minacciare la salute degli altri. Niente matrimonio. Il giovane si inabissa. Gioca a carte fino a notte fonda, si ubriaca.
Ma quelli della Yakuza sono padroni esigenti: anche il crimine per funzionare ha bisogno di regole stringenti. Lo ripescano, lo rianimano e lo rispediscono al lavoro. Finché un giorno, ormai adulto fatto, ma stanco di sentirsi rifiutato dalle donne o dalle loro famiglie, decide di andarsene da Hiroshima. Si mette in viaggio verso Tokyo, ma poi si ferma molto prima, a Okayama. Apparentemente non ha molte risorse; non ha studiato, perché da quel 6 agosto si è allontanato dai libri e dalla scuola. Tutto quello che sa lo ha imparato dalla strada.
Gira per i ristoranti, lava i piatti, si dà da fare. A poco a poco entra nel mestiere, mette da parte qualche risparmio. Fino a che non apre una sua piccola impresa alimentare. Cresce al punto da diventare un padroncino con 50 dipendenti. Ma non è ancora felice: anche ad Okayama non si sente a posto. Non è riuscito a trovare moglie o una compagna. A 70 anni è solo, più o meno come lo era a 11. E allora decide di tornare a casa, a Hiroshima.
Si avvicina alle associazioni degli «hibakusha», finché gli chiedono se vuole occuparsi un po’ del museo della memoria, nel Parco della Pace. Ci rimane fino a 82 anni, quando un giorno vede comparire in televisione un presidente degli Stati Uniti che entra nel suo parco, con una corona di crisantemi bianchi e la mette proprio lì, dove cadde la bomba. La sua bomba.
Per un giorno Shozo Kawamoto si rivede ragazzino di 11 anni, inerme, abbandonato, con lo stomaco tenuto a bada inghiottendo bocconi di carta bagnata. E allora resta a casa, con i suoi 82 anni e i suoi ricordi che ha raccontato rispondendo al telefono, dopo molti squilli, la sera di questo storico 27 maggio.
Giuseppe Sarcina
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