Profughi prigionieri nel limbo greco

Profughi prigionieri nel limbo greco

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ATENE Non arriva quasi più nessuno in Grecia via mare. E più nessuno attraversa i confini a nord, tranne i pochissimi che riescono a farlo ricorrendo ai trafficanti. E, ancora, pochissimi lasciano la Grecia nell’ambito delle nuove procedure previste a livello europeo.

Non esistono cifre ufficiali del governo e le stime delle diverse organizzazioni non sempre coincidono. Di fatto, circa 60.000 persone provenienti per lo più dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan sono, ormai da mesi, bloccate in Grecia: la maggior parte, 50.000, sul continente, in campi formali e non. Ce ne sono circa 50 sparsi nel paese. Il resto all’interno dei cinque hotspot allestiti sulle isole di fronte alle coste turche.

Vivono tutti in condizioni materiali molto precarie ma soprattutto fiaccati dalla situazione di stallo che si è creata in seguito alla chiusura delle frontiere e all’intesa dei paesi Ue con la Turchia. E consapevoli ormai di essere intrappolati in quella che per loro Europa ancora non è. Hanno di fronte due alternative: aspettare di trovare i tanti soldi che servono per affidarsi ai trafficanti e provare con documenti falsi a lasciare la Grecia.

Oppure aspettare di poter fare domanda d’asilo per poi riuscire a raggiungere regolarmente altre mete.

Un’attesa che è destinata a durare mesi, probabilmente anni, date le condizioni in cui si trova il sistema asilo in Grecia. Una legge ancora debole, modificata ripetutamente – gli interventi più recenti lo scorso giovedì – e fortemente influenzata dalla linea politica attuale della Commissione europea, con un sistema d’accoglienza tutto da costruire. E una serie di limiti a livello procedurale che prefigurano nella prassi violazioni del diritto comunitario e della stessa normativa nazionale.

Questo quanto emerso dalle testimonianze raccolte all’interno dei campi e dalle risposte dei rappresentanti istituzionali, degli avvocati e delle organizzazioni umanitarie, incontrati nel corso della missione di osservazione legale organizzata dall’Asgi nei giorni scorsi e che ha visto gruppi di esperti di diverse associazioni dislocati nelle zone maggiormente interessate dall’emergenza umanitaria.

Sulla terraferma, il governo, dopo aver sgomberato molti dei campi spontanei e trasferito uomini, donne e tantissime famiglie con bambini all’interno di tendopoli o strutture fatiscenti e spesso di fortuna, gestite principalmente dall’esercito, dai primi di giugno ha deciso di avviare una massiccia procedura di pre-registrazione: coadiuvati dall’Easo, l’ufficio europeo di supporto all’asilo, e dall’Unhcr – entrambi fortemente presenti nella gestione dell’iter procedurale – i funzionari greci stanno procedendo a una sorta di censimento, una prima ricognizione dei dati di ciascuno prima di poter avviare le due fasi successive previste per la richiesta d’asilo.

La speranza, o forse l’illusione, è di poter rapidamente implementare il meccanismo della relocation e trasferire in altri stati membri quanti più richiedenti. Anche perché, tragicamente, si tratta spesso di persone che hanno pezzi di famiglia in Germania e negli altri paesi del Nord Europa. E che complessivamente non coprono neanche un terzo della quota di richiedenti asilo che l’Agenda europea sulle migrazioni aveva sostenuto di voler redistribuire. Il timore è che i tempi saranno così lunghi che difficilmente prima di un anno le operazioni saranno completate. E l’offerta, in termini di servizi e di accoglienza, appare al momento inesistente.

Quanto alle isole, dopo il 20 marzo, solo a chi proviene dalla Siria, una volta registrato, viene per il momento esaminata la domanda d’asilo in Grecia. Ma senza entrare nel merito della storia individuale: si valuta l’ammissibilità o meno della richiesta in vista dell’eventuale riammissione in Turchia. E la valutazione di fatto la fanno gli esperti dell’Easo, il cui ruolo diventa sempre più ingombrante. Finora sono state dichiarate ammissibili solo le domande di alcuni casi più vulnerabili, ma anche sui criteri di vulnerabilità la situazione è confusa visto che una famiglia con figli piccoli non è detto che vi rientri. La maggior parte delle decisioni sono state d’inammissibilità e sono state successivamente oggetto di ricorso da parte dei richiedenti. La Commissione indipendente che valuta l’appello ha finora ribaltato le decisioni considerando non sicuro il rientro in Turchia e accettando dunque la richiesta d’asilo in Grecia. Per questo le riammissioni verso la Turchia sono, almeno per il momento, ferme e il meccanismo di mobilità tra i due paesi contenuto nell’accordo di marzo evidentemente inceppato.

Ma l’obiettivo prioritario di strozzare il flusso sulle coste turche è stato raggiunto. Il problema delle decine di migliaia di persone rimaste intrappolate riguarda ormai solo la Grecia dove per ora si va avanti per tentativi, in un contesto generale di confusione e mancanza totale di progettualità. E dove sulla carta, i diritti dei richiedenti asilo nelle diverse situazioni sembrano essere tutelati da una serie di garanzie. Guardando i fatti, l’impressione è che si navighi a vista in una sorta di tragica zona franca rispetto al diritto e alla tutela della dignità di quelle migliaia di persone.



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