Intercettazioni Napolitano-Mancino Gli accertamenti sui pm di Palermo
ROMA A quattro anni da quando ne fu svelata l’esistenza, annunciate senza rivelarne il contenuto e nel frattempo distrutte su disposizione della Corte costituzionale, le telefonate intercettate casualmente tra l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino fanno ancora discutere. E sono divenute oggetto di un intervento mirato sulla Procura di Palermo da parte dell’Ispettorato del ministero della Giustizia. Con reiterate richieste che hanno finito per irritare i pubblici ministeri del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, convinti che la vicenda sia stata gestita con cristallina linearità. Ciò nonostante, i sei magistrati in servizio depositari del segreto su quelle conversazioni (di cui nulla è trapelato) hanno dovuto fornire nuovi chiarimenti nell’ambito dell’indagine ispettiva tuttora aperta.
Tutto nasce da un’intervista che l’ex pm Antonio Ingroia, dall’autunno 2012 fuori dall’inchiesta e poi anche dalla magistratura dopo il tentativo di ingresso in Parlamento, rilasciò nel novembre scorso al quotidiano Libero . In quell’occasione ipotizzò di rendere noti, un giorno, i colloqui tra Napolitano e Mancino registrati tra fine 2011 e inizio 2012, mentre i pm tenevano sotto controllo il telefono dell’ex ministro dell’Interno, all’epoca testimone dell’indagine sulla trattativa. «Non è ancora arrivato il momento — disse Ingroia — anche se, probabilmente, un giorno lo racconterò: credo che “tutte le verità” di uno Stato democratico vadano svelate ai cittadini… Magari attraverso un romanzo…».
Quelle intercettazioni, mai trascritte per ordine degli stessi pm che le ascoltarono e le giudicarono irrilevanti per l’inchiesta giudiziaria, sono state cancellate dopo che l’allora presidente della Repubblica sollevò davanti alla Corte costituzionale un inedito conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, rivendicando l’assoluta e inviolabile segretezza dei propri colloqui, anche informali, con chicchessia. La Consulta gli diede ragione, e la Procura attivò davanti al giudice l’iter di distruzione delle intercettazioni senza che nemmeno le parti coinvolte nel procedimento penale potessero venirne a conoscenza.
Caso chiuso, dunque. Fino alla «minaccia» di Ingroia, a cui il capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Giovanni Melillo, fece seguire una richiesta di accertamenti al capo dell’Ispettorato, Elisabetta Cesqui. La quale si mise in moto per verificare che non ci fossero ulteriori registrazioni o copie in circolazione. La Procura di Palermo rispose che tutto si era svolto secondo le procedure verbalizzate, e niente era sfuggito al controllo. Ma alla fine di marzo, sempre «su disposizione del Gabinetto del ministro» e dopo aver acquisito informazioni presso la polizia giudiziaria, il capo degli ispettori è tornato a formulare ulteriori istanze: una verifica sul server che registra le telefonate installato presso gli uffici giudiziari palermitani, per appurare se potevano trovarsi tracce di eventuali duplicazioni o accessi diversi da quelli documentati; relazioni da parte dei pm titolari del fascicolo per riferire «sulle modalità di ascolto delle conversazioni poi distrutte», specificando se ne fosse stata conservata «copia cartacea o informatica su qualunque supporto».
Da Milano è arrivato un tecnico della ditta che ha prodotto il server, e la nuova verifica ha dato esiti negativi. Inoltre i singoli magistrati (il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, l’ex sostituta oggi aggiunto a Caltanissetta Lia Sava, i sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Paolo Guido) hanno sottoscritto altrettante note in cui confermano quanto già affermato: gli ascolti si sono svolti su due copie, entrambe cancellate «come da richiesta in data 17 gennaio 2013», mai riprodotte né trascritte. Con qualche postilla polemica, che nel caso del pm Di Matteo suona così: «Tanto rappresento pur non comprendendo le ragioni di reiterate richieste che sembrano muovere da ingiustificata sfiducia nell’operato del sottoscritto».
Altre sono più o meno dello stesso tenore, anche perché se avessero fatto qualcosa di diverso da quanto riferito i magistrati coinvolti avrebbero commesso un reato. Ma dall’Ispettorato hanno ritenuto opportuno chiarire ogni dettaglio, anche a tutela dei singoli interessati in caso di eventuali, future fughe di notizie. E l’indagine, sebbene formalmente non ancora chiusa, sembra destinata all’archiviazione. Resta tuttavia un paradosso: gli accertamenti così accurati non si sono potuti svolgere su chi ha ipotizzato la «rivelazione di segreto», cioè Ingroia che pure precisò di non aver mai detto di volerne o poterne esibire copie, ormai ex magistrato e dunque immune dai controlli del ministero. Al pari dell’ex procuratore Francesco Messineo, da tempo in pensione.
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