Il mondo che rivuole le frontiere

Il mondo che rivuole le frontiere

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LA COMPETIZIONE globale — dice Barack Obama — dà a molti lavoratori la sensazione che li abbiamo abbandonati. Provoca diseguaglianze ancora maggiori. I privilegiati accumulano straordinarie ricchezze e potere. L’angoscia è reale. Quando la gente è spaventata, ci sono politici che sfruttano queste frustrazioni». Pronunciate poche ore dopo il risultato del referendum inglese, queste parole del presidente degli Stati Uniti abbracciano fenomeni comuni a tutto l’Occidente. Da Brexit a Donald Trump, forti correnti dell’opinione pubblica appoggiano i politici che promettono un ritorno all’indietro, verso un’Età dell’Oro pre-globalizzazione. È un vasto rigetto delle frontiere aperte, dei mercati comuni, dei trattati di libero scambio, oltre che dell’immigrazione. Viene rimesso in discussione tutto ciò che sotto il termine di globalizzazione ha segnato l’ordine economico mondiale nell’ultimo quarto di secolo. Una storia che ha origini in due trattati. Il primo è l’Atto che crea nel 1992 il grande Mercato unico europeo.

IL secondo è il Nafta (North American Free Trade Agreement) negoziato nel ’92 e ratificato nel 1994 tra Stati Uniti, Canada e Messico. Parte da quei due cantieri la costruzione di un sistema che in seguito si estenderà fino ad abbracciare Cina e altre nazioni emergenti. Ma dall’inizio Mercato unico e Nafta avevano in embrione i problemi destinati a esplodere oggi.

Le riforme di mercato degli anni 90 arrivano al termine di un’offensiva neoliberista travolgente: gli anni Ottanta con Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno delegittimato l’economia mista, il capitalismo di Stato, la pianificazione, la concertazione sindacale. Il crollo del Muro di Berlino ha sancito il fallimento dei sistemi comunisti. L’implosione dell’Urss e dei suoi satelliti è l’altra faccia di una storia di successo: di qua dal Muro, l’America e l’Europa occidentale hanno conosciuto decenni di sviluppo e diffusione del benessere, che hanno coinciso con i primi smantellamenti di barriere doganali. Dal 1947 al 1995 il Gatt e la Cee sono stati i primi esperimenti di libero scambio. Con gli anni Novanta la parola d’ordine diventa: andare più avanti, molto più avanti. Reagan- Thatcher sposano le teorie di Milton Friedman, premio Nobel dell’economia, capo della “scuola di Chicago”. Qualsiasi laccio che freni il mercato va abolito perché impedisce il dinamismo e la creazione di ricchezza. Senza più barriere e protezionismi ciascun paese può specializzarsi nelle cose che fa meglio e sfruttare i “vantaggi comparativi”.

Fin da allora si levano alcune voci critiche. Jacques Delors, socialista e cattolico, è il presidente della Commissione europea che gode dell’appoggio di François Mitterrand. Delors vede la necessità che il Mercato unico sia accompagnato da una “carta sociale” dei diritti: per evitare che la competizione fra paesi di livello diverso si trasformi in una “rincorsa al ribasso” verso il minimo comune denominatore. Nel Mercato unico c’è qualcosa dell’idea di Delors. Tant’è che i conservatori inglesi allora denunciano un’Europa “socialista” che impone rigidità al mercato del lavoro. E’ di quegli anni un progresso nelle tutele dei consumatori, terreno sul quale l’Europa parte tardi ma sorpassa rapidamente gli Stati Uniti.

Il Mercato unico è più di un’area di libero scambio. Elimina barriere occulte all’esportazione di beni e anche di servizi; abolisce ostacoli alla circolazione di tutti i fattori di produzione: dà libertà ai movimenti di capitali e all’emigrazione di manodopera. Coordina politiche fiscali, industriali, agricole. Crea regole standard in quasi tutti i settori. Apre il mercato dei lavori pubblici. Vieta gli aiuti di Stato. Il celebre Rapporto di Paolo Cecchini (eseguito su richiesta di Delors) prevedeva, tra i benefici del Mercato unico, due milioni di posti di lavoro.

Il Nafta dal primo gennaio 1994 estende un esperimento simile a tutto il Nordamerica: un’area che oggi include 480 milioni di abitanti. Lo firma un presidente democratico, Bill Clinton, con una dichiarazione scolpita nella pietra, che ancora oggi viene rinfacciata a Hillary. «Il Nafta – dice Bill firmando il trattato – significa lavoro. Nuovi posti per gli americani, ben pagati». Fin dall’inizio ci furono resistenze. I sindacati, e non solo. Clinton aveva conquistato la Casa Bianca perché nell’elezione del 1992, a rubare voti al presidente uscente George Bush Senior era sceso in campo un terzo candidato indipendente, un Trump ante litteram: l’industriale Ross Perot. Il suo slogan più celebre, contro Bush che aveva negoziato il Nafta: «Quel trattato è un gigantesco aspirapolvere, succhierà fabbriche e occupazione dagli Usa al Messico». Perot puntava il dito sul divario salariale: la paga oraria di un operaio messicano arrivava a stento a un decimo di quella Usa. Oggi Trump riprende gli stessi argomenti. Oltre al Muro contro l’immigrazione promette pesanti ritorsioni e multe contro le imprese Usa che delocalizzano nei paesi a basso salario. Il bilancio del Nafta che “perseguita” Hillary è meno brillante di quanto prometteva suo marito nel firmarlo. Uno studio indipendente del Congressional Research Service un quarto di secolo dopo definisce “modesti” i benefici del Nafta. L’organismo confindustriale U.S. Chamber of Commerce lo difende attribuendogli il boom di scambi: quintuplicati nel mercato nordamericano. Ma la confederazione sindacale Afl-Cio ha censito oltre 700.000 posti di lavoro trasferiti dagli Usa al Messico. Se si allarga lo sguardo oltre il Messico, si arriva a tre milioni di posti operai eliminati nella vecchia Rust Belt, la “cintura della ruggine”, gli Stati industriali del Midwest che furono il centro della potenza industriale Usa per due secoli. E’ lì che si gioca a novembre la sfida decisiva tra la Clinton e Trump. La decideranno elettori come Joe Shrodek, metallurgico in pensione, nella cittadina di Warren, Ohio. Ha sempre votato democratico. Ma oggi indica l’altoforno siderurgico dove lui lavorava: «Lì quando cominciai eravamo in diecimila operai. Oggi? Zero. Impianto chiuso. Trump dice le cose giuste. Al cento per cento».

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LA CRISI DEL LAVORO

Dai trattati di libero scambio si attendevano nuovi posti di lavoro, e invece è guerra alla delocalizzazione, che sposta le aziende dove i salari sono più bassi



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