Più ispezioni e denunce ma i caporali come boss

Più ispezioni e denunce ma i caporali come boss

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«Noi chiediamo continuamente alle autorità di occuparsi di San Ferdinando, vivere tra le baracche è un inferno, ma su questo pezzo di Calabria i riflettori si accendono solo quando c’è un morto», nota amara Celeste Logiacco, giovane sindacalista di frontiera. Segretaria Flai Cgil della Piana di Gioia Tauro, si impegna ogni giorno contro il caporalato e per la regolarizzazione di chi lavora nei campi.

Quante persone vivono nella tendopoli di San Ferdinando?

Tra le 400 e le 500: in passato, quando si concludeva la stagione degli agrumi e delle olive, e cioè verso fine marzo, le strutture si svuotavano. Ma dall’anno scorso gli abitanti hanno scelto di fermarsi anche in estate: cercano di prendere comunque delle giornate, per ripulire i campi o per occuparsi delle potature. Alcuni poi hanno messo su dei piccoli commerci: vendono l’acqua per lavarsi, aggiustano le biciclette, tagliano e cucinano la carne. Chi vive qui viene da Mali, Ghana, Senegal, Burkina Faso, sono quasi tutti uomini. Le donne sono meno di trenta, e poi ci sono due bambini: Manuel e Gabriella, hanno circa due anni: sono nati qui ma sono di cittadinanza ghanese.

Mancano l’acqua corrente, adeguati servizi igienici e le fognature. Non è migliorato nulla rispetto al passato? Eppure è da qualche anno che la stampa denuncia le insostenibili condizioni di San Ferdinando.

L’anno scorso c’era l’idea di sostituire le tende: sono 72 padiglioni in tutto, forniti anni fa dalla protezione civile, ma poi non se n’è fatto niente. Le autorità avevano buttato giù le baracche che via via si erano aggiunte ai margini del campo, ma subito dopo i braccianti le hanno rimesse su, tanto che oggi si contano quattro file di abitazioni improvvisate, costruite con materiali di scarto. Un mese fa la tendopoli si è allagata dopo una forte pioggia. Purtroppo dal punto di vista abitativo le condizioni peggiorano, qui come in altri insediamenti: ad esempio in una grossa fabbrica dismessa, noi la chiamiamo «lo scatolone», oggi vivono circa 30 persone, ma in alta stagione arrivano fino a 300. Lì le condizioni sono ancora più precarie: non c’è luce, acqua, servizi igienici, si vive come dentro una grotta.

Le condizioni lavorative sono migliorate? Ci sono più ispezioni nei campi? L’attività legislativa, almeno a vederla da Roma, in qualche modo c’è stata.

Da questo punto di vista le cose sono migliorate: da un lato, sì, sono decisamente aumentate le ispezioni, ci sono aziende indagate, denunce e sequestri. Un buon numero di braccianti, quelli che siamo riusciti a intercettare con il sindacato di strada, adesso ha il contratto: ora dobbiamo monitorare che vengano retribuite effettivamente tutte le giornate lavorate, e che vengano pagati i contributi. Ma il caporalato resta forte, aggressivo, e le paghe per chi è impiegato in nero rimangono al limite della schiavitù: 25 euro al giorno, per 12 o più ore di fatica sotto il sole. O peggio, il cottimo: 1 euro per ogni cassetta di mandarini e 50 centesimi per una di arance.



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