Un serrato vis-à-vis sull’indomabile bestia dell’utopia
L’utopia è una bestia ribelle, difficile da addomesticare. Esprime la visione di un mondo «perfetto», dove non c’è posto per le ingiustizie e dove tutti possono esprimere il meglio di sé nella vita pubblica e privata. Prima avvertenza: l’immaginazione espressa sull’«isola che non c’è» è legata sempre a una contingenza storica. Così nell’antichità i termini della società perfetta differiscono da quelli enunciati nel Quattrocento, il Seicento o nell’Ottocento. Questa centralità dell’«immaginazione storica» è il filo rosso usato dalla filosofa Agnes Heller nel dialogo, serrato, condotto con Riccardo Mazzeo, filosofo per formazione, studioso attento di psicoanalisi e psicologia per passione, nel volume Il vento e il vortice (Erickson, pp. 152, euro 14,50).
È un volume che concede ben poco alla retorica, visto che entrambi gli autori sono consapevoli che dietro un’utopia c’è sempre una distopia, cioè la sua negazione nell’immaginare – di nuovo – una società dove le ingiustizie e l’oppressione raggiungono l’acme. Si potrebbe dire che ogni utopia ha come sorella (o fratello) gemella una visione orrorifica della società del futuro. O del presente.
Il movimento teorico condotto dai due autori ha come punto di partenza la storia delle idee, cioè come l’utopia ha attraversato la filosofia e la teologia, da Thomas Moore a Tommaso Campanella ai socialisti utopisti. Agnes Heller ha vissuto per decenni in un paese che inseguiva il progetto di un nuovo mondo. Per essi ha conosciuto la negazione della libertà e i gulag. I dirigenti comunisti, annota, erano convinti militanti di un progetto politico teso a costruire un mondo perfetto. Alla fine si è scoperto che per questo sono diventati assassini.
A nulla vale opporre alla sua visione semplicistica una documentata analisi storica sul fatto che di utopico nel socialismo reale c’era ben poco. Sarebbe operazione inutile. Di certo c’è il fatto che Agnes Heller considera entrambe le forme di immaginazione storica antidoti teorici verso le storture delle «società contemporanee». Guai però a farle diventare sia proposte in positivo per il futuro o critiche immanenti al presente: sono solo campanelli di allarme di qualcosa che non va nel lento, ma intrasformabile amministrazione della realtà.
Riccardo Mazzeo obietta che l’utopia non è solo immaginazione storica, ma anche sociale, cioè uno strumento che serve non solo a criticare la realtà ma a fornire chiavi di accesso alla sua trasformazione. Cita romanzi, testi della psicoanalisi, sociologici. La sua argomentazione è convincente, ma il dubbio che riesca a smuovere le certezze granitiche di Agnes Heller è più che legittimo.
Una dubbio comunque si impone rispetto a questo volume: vedere l’utopia come un esercizio effimero sul mondo che non c’è, toglie la possibilità di pensarla come il mondo possibile che ha però forti radici, traendone alimento, proprio nella realtà. Sarebbe un modo per riconciliare immaginazione storica e immaginazione sociale. L’elemento che rende l’utopia e la distopia le sorelle gemelle dello status quo.
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