Sos suicidi, fermare la morte in cella
Il problema è antico quanto l’invenzione della prigione. Perché, il più delle volte, è proprio il carcere a scatenare pulsioni e pratiche suicidiarie. O, meglio, è ciò che il carcere toglie alla persona, assieme e oltre alla libertà: presente e futuro, affetti, lavoro, ruolo sociale, dignità. E, infine, speranza.
Per quanto ogni suicidio sia un caso a sé, con alla base un intreccio di fattori, spesso la spinta a morire viene dall’incapacità di resistere alla spoliazione di tutto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta. Uccidersi in cella, allora, può sembrare paradossale e tragico recupero di sé. Come nella Ballata del Michè di De Andrè: adesso che lui s’è impiccato / la porta gli devono aprir.
Il problema è tanto antico quanto insoluto, come mostrano le statistiche. Per stare alle più recenti, i suicidi in cella sono stati 44 nel 2014, 43 l’anno successivo, mentre alla fine dello scorso aprile erano già 12, oltre a ben 302 tentati suicidi e 2278 atti di autolesionismo. Così che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha voluto richiamare l’attenzione delle strutture penitenziarie con una direttiva, indirizzata al capo del Dipartimento non a caso a ridosso dell’estate, quando, con disagi e sofferenze, aumentano i rischi. Una direttiva e un richiamo non solo formale, giacché dispone e dettaglia diverse misure, mirate in particolare ai giovani detenuti, a soggetti più fragili quali tossicodipendenti, alcolisti, abusatori di psicofarmaci e alla prima fase della carcerazione; assieme, rimarca la necessità dell’attento monitoraggio, osservazione e studio del fenomeno, nonché della formazione.
Se i numeri non decrescono, pure e infine qualche maggiore consapevolezza sembra essersi fatta strada. Tanto che il ministro riconosce come il «prevalente» fattore di rischio sia quello ambientale e non soltanto quello individuale. Ne consegue che «la sola sorveglianza e l’isolamento del detenuto con tendenza suicida non possono costituire incisivo strumento di prevenzione»; tali misure, anzi, possono accentuare «il rischio di azioni autodistruttive».
Un ragionamento che potrebbe apparire persino banale, ma che ha faticato a farsi strada nella tradizionale gestione e cultura operativa del carcerario. Dunque è fatto positivo che oggi – o meglio ieri, con una nota del Dipartimento datata 4 febbraio sulla prevenzione dei suicidi in carcere – si sottolinei l’importanza di «evitare ogni forma di isolamento del soggetto a rischio» e di individuare -pur con la cautela del «per quanto possibile«compagni di detenzione umanamente e culturalmente più idonei a instaurare un rapporto proficuo con la persona in difficoltà».
Parimenti, sembra acquisita la centralità della formazione del personale, troppo spesso in passato limitata unicamente alle funzioni di custodia e sicurezza.
Insomma, pur con storici ritardi, i responsabili delle carceri sembrano essersi resi conto che la segregazione, il “carcere chiuso”, la carenza di relazione, la negazione degli affetti costituiscono una morte dilazionata, fonte di quella disperazione che può portare a scegliere di morire in fretta e di propria mano. E sembrano intenzionati a dare seguito e concretezza a quel corposo Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidiarie in ambito penitenziario da tempo allo studio.
Siamo sempre e ancora ai buoni propositi, può obiettare non senza ragioni qualcuno. Rimane vero che se il carcere è la malattia, la vera è più efficace cura sarebbe la sua abolizione. Tuttavia, i buoni propositi sono l’indispensabile presupposto delle buone pratiche. Che, a loro volta, possono costituire altrettante tappe per finalmente “liberarsi dalla necessità del carcere”. Come si riteneva possibile non molto tempo addietro.
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